Internazionale

Tripoli e Bengasi: «Nessuna soluzione politica»

Libia Stephanie Williams (Onu): «Una storiella l'embargo sulle armi»

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 18 febbraio 2020

Era raggiante ieri Luigi Di Maio nel commentare l’intesa raggiunta ieri dai ministri degli esteri dell’Ue per una nuova missione di controllo dell’embargo Onu sulle armi in Libia. «Torniamo come Europa e come Italia ad essere protagonisti in Libia e non ad alimentare la guerra» ha detto il titolare della Farnesina.

«Siamo d’accordo – ha poi aggiunto – che si debba lavorare, oltre alla sorveglianza aerea e navale, anche su quella terrestre ai confini della Libia». Fermare il flusso costante di armi è del resto uno dei punti centrali per provare a porre fine alle violenze in Libia. Eppure, nonostante la sua importanza, è stato colpevolmente trascurato dalla comunità internazionale: basti pensare al fatto che la risoluzione Onu1973 del 2011 sull’embargo di armi nel paese nordafricano è sempre stata resa carta straccia da tutti gli attori del caos libico. Lo scorso dicembre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu “osò” fare i nomi dei suoi trasgressori accusando esplicitamente la Giordania, gli Emirati Arabi Uniti (pro-Haftar, il capo dell’Esercito Nazionale Libico, Enl) e la Turchia (pro- al-Serraj il premier del Governo di Accordo Nazionale, Gna) di «ripetute violazioni delle norme internazionali». Il richiamo cadde come sempre nel vuoto.

Accanto agli stati che armano e partecipano direttamente agli scontri, non meno responsabili sono poi quei paesi che vendono armi ai trasgressori (p.s. l’Italia e l’Egitto) o offrono una protezione politica ai loro crimini (caso emblematico è quello degli Usa e del Regno Unito con gli Emirati).

La questione dell’embargo riproposta ieri a un mese dal vertice internazionale di Berlino sulla Libia testimonia il fallimento del summit tedesco venduto dai leader europei (Italia in primis) come un «successo». Non basta infatti ripetere il mantra «no alle armi perché non c’è soluzione militare in Libia» se nei fatti non si pensa almeno a sanzionare dapprima i trasgressori. E senza un dispositivo di controllo e di pene per chi viola i patti, le armi e i mercenari stranieri (soprattutto islamisti dalla Siria in sostegno di al-Sarraj) non potevano non continuare a scorrere indisturbati nello stato fallito africano, regalo avvelenato della guerra della Nato al rais Gheddafi del 2011. Perché Berlino non è mai esistita in Libia, soprattutto per i civili e i migranti: checché ne dica Di Maio o il suo pari tedesco Maas.

Violazioni così palesi che, ha detto domenica la vice rappresentante delle Nazioni Unite in Libia Stephanie Williams, «hanno reso l’embargo sulle armi una barzelletta» al punto che la situazione sul terreno «malgrado alcuni segnali positivi, resta profondamente preoccupante». Ma, la «storiella» è soprattutto rappresentata dal fatto che chi dovrebbe monitorare le violazioni è direttamente o indirettamente complice delle stesse. È il caso di Turchia ed Emirati Arabi, firmatari di Berlino, e che, ciononostante, hanno fatto arrivare a Tripoli navi cariche di carri armati per al-Sarraj (Ankara), e atterrare in una sua base nella Libia orientale decine di aerei pieni di rifornimenti per Haftar (Abu Dhabi).

Certo il summit nella capitale tedesca ha permesso anche la nascita del Comitato Congiunto militare 5+5 (5 rappresentati del Gna e altrettanti dell’Enl), un tentativo per mediare tra le due parti rivali. Un meccanismo che lascia però soddisfatti solo chi la Libia la guarda da lontano: se Di Maio ieri ha ribadito che al-Sarraj e Haftar «vogliono dialogare» e che proprio il Comitato deve essere «il foro» per farlo, dal paese nordafricano le dichiarazioni delle ultime ore sono di segno opposto. Da Bengasi, infatti, Haftar ha promesso che «non ci sarà nessun cessate il fuoco senza la liberazione di Tripoli». E da Tripoli, il presidente dell’Alto Consiglio di Stato libico Khaled al-Mishri ha detto ad al-Jazeera «di non contare molto su una soluzione politica alla crisi» nel suo Paese.

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