Fa bene il Trieste Film Festival ad accompagnare alla sua selezione internazionale un gruppo di produzioni locali, di cui molto spesso si rivelano degli echi più generali. Quest’anno si segnala in particolare un documentario che prosegue l’impegno della videomaker triestina Erika Rossi nel trattare la vicenda dell’ex Ospedale Psichiatrico. Alcune sue opere precedenti avevano ricostruito più estesamente la vicenda varata da Franco Basaglia, e sono reperibili in allegato a volumi pubblicati dalla casa editrice voluta dal continuatore dell’esperienza basagliana, Franco Rotelli, che fu sempre curioso verso le manifestazioni culturali in cui la loro vicenda trovava eco, festival cinematografici compresi (intervenendo spesso anche nei percorsi basagliani dei Mille occhi). Rotelli ci ha recentemente lasciati, e il nuovo film di Erika Rossi ne contiene una delle ultime interviste, insieme a quelle di altri allievi basagliani come Peppe Dell’Acqua. Il che già basterebbe a renderlo un documento importante.

Ma ci sembra che l’autrice, pur non evidenziandolo, si colleghi stavolta a un altro episodio dell’esperienza basagliana da lei trattato in precedenza, quello di Marco Cavallo, il mitico e insieme vero cavallo diventato tra i simboli di quell’esperienza, che negli spazi dell’istituzione psichiatrica era prima di tutto in animale-operaio.

Orbene, la regista ha voluto trattare col nuovo film proprio la storia dei rapporti di lavoro in quel luogo. 50 anni di CLU (Cooperativa Lavoratori Uniti Franco Basaglia), in anteprima assoluta al festival, ricostruisce come in questo cinquantennio si siano superate le illusorie ideologie ergoterapeutiche, che nascondevano una sregolata schiavizzazione dei pazienti nei lavori umili necessari al funzionamento quotidiano dell’ospedale. Franco Basaglia, formatosi dentro le pratiche della psichiatria tradizionale, aveva in effetti saputo eluderla in tutti i dettagli, trovando una sponda politica nell’allora presidente della Provincia, Michele Zanetti, esponente di punta di quella DC morotea che aveva a Trieste una vera avanguardia. Anche lui è presente nel documentario, rivelando come la CLU sia stata l’unica cooperativa nata dalla delibera di una Provincia, quella da lui amministrata, in un’esperienza che spostava continuamente gli sviluppi dalla dimensione istituzionale alla loro realtà fattualmente sociale.

Le testimonianze nel film di quanti divennero attivi membri della cooperativa, e dunque si videro riconoscere un ruolo di operaio autogestito, svelano come l’esperienza basagliana, pur muovendosi in un ambito (anti)psichiatrico e assumendo un ruolo di generale rivoluzione culturale, sia sempre stata prima di tutto un ripensamento dei rapporti sociali, in cui riusciva a superare le pure ideologie: ed ecco che su quella cooperativa una sorta di proudhonismo storico si aggancia al modello dei soviet e a quello delle autogestioni sociali, non temendo di «sporcarsi le mani» coi rapporti istituzionali. E quanti all’epoca contestarono su ciò Basaglia «da sinistra» non possono che testimoniare nel film di essere stati meno lungimiranti di lui. Nel mondo d’oggi, in cui sembra esistere solo il livello istituzionale o semmai il mito della comunicazione transideologica, l’esperienza della CLU è emblematica di come tutta l’esperienza basagliana rimanga un modello.

Qualche anno fa, recensendo su Alias il volume-album curato da Rotelli sulla vicenda basagliana, cercammo di delineare le varie coordinate anche cinematografiche di quell’esperienza, e di come non fosse irrilevante che all’ex Psichiatrico guidato da Basaglia arrivassero rassegne dei film di Frederick Wiseman (e interventi di Depardon, Berengo Gardin e altri).

Continua a commuoverci il fatto che la pratica basagliana, intervenendo con quotidiana modestia sui territori geografici in cui operava, approdando prima a Gorizia e poi a Trieste, fosse sempre consapevole del proprio valore universale, e non temesse mai di risolversi in qualcosa di autoreferenziale. In quel passato articolo sottolineammo tra l’altro come sia stata parte di questa consapevolezza la nascita di una collana editoriale, sviluppata da Rotelli.

Oggi il film di Erika Rossi, anche se forse lo avremmo voluto più sperimentale, in senso wisemaniano, e meno tradizionale (meno affidato per esempio all’unica guida di Massimo Cirri che ne è cosceneggiatore e «conduttore», per usare un’espressione da standard televisivo), ha il merito di rivelarci che le operazioni editoriali hanno qui un valore di coerenza economica col modello cooperativistico che 50 anni fa si impose varando la CLU, un acronimo che merita di essere riletto per esteso, e in cui quel concetto di «Lavoratori Uniti» è un pensiero forte. E oggi completa il cerchio il fatto che il film stesso sia autoprodotto, infatti nei titoli si legge quanto segue: «La Cooperativa Lavoratori Uniti Franco Basaglia presenta / 50 anni di CLU (Cooperativa Lavoratori Uniti Franco Basaglia). Le parole contano. Talvolta sono esse le vere immagini della vita.