Emily Dickinson scriveva in versi che le montagne non mentono e guardandole dalla Georgia l’autrice non pare aver torto. Su queste pagine tempo fa, in occasione del Docudays di Kiev, si menzionava il bellissimo documentario di Nino Ordjonikidze e Vano Arsenishvili A Tunnel (2019) che all’ultima edizione del Trento Film Festival si è aggiudicato il Gran Premio «Città di Trento» come miglior film. Il tunnel di una ferrovia è quello che viene scavato da un’impresa cinese in un remoto villaggio georgiano come parte della nuova «Via della Seta», attraversando campi e pascoli e mettendo in subbuglio la quotidianità degli abitanti. Senza pietismi si racconta una piccola storia che include a sua volta un’altra più grande: le tensioni geopolitiche, il lavoro globalizzato, l’identità di un luogo, l’equilibrio tra uomo e natura e ogni tassello dipende dall’altro in un effetto domino che non fa sconti a nessuno.

Classici
Tuttavia, la sezione speciale dedicata dal festival (quest’anno in una versione ibrida di streaming e sala) alla Georgia non si è esaurita qui, varcando tempi e montagne diverse. Tra le visioni migliori: Mekvle (Goderdzi Chokheli, 1981), ovvero un insieme di immagini in bianco e nero di un villaggio abbandonato in cui si sovrappongono, posticci, rumori di spari, chiacchiere, cani e litigi. Una intensa poesia visiva in cui le parole e i suoni creano un cortocircuito di senso. Facendo un passo indietro seguiamo la carovana bianca di Tamaz Meliava e Eldar Shengelaia (The White Caravan, 1964) un grande classico del cinema georgiano, restaurato da poco. In un paesaggio crudo, dominato dall’alternanza delle dure stagioni invernali, un gruppo di pastori, guidati dall’esperto Martia (un formidabile Spartak Bagashvili) guida un gregge. Durante uno di questi interminabili viaggi il figlio di Martia si innamora di una pescatrice e con lei vorrà trasferirsi in città provando a rinunciare alla tradizione. Un neorealismo asciutto eppure molto sentimentale dove convergono le grandi questioni legate al dissidio tra vita in città e i ritmi della terra alla luce dei travagli interiori dei personaggi.

Contemporanei
Arrivando ai conflitti dei giorni nostri va ricordato I Didn’t Cross The Border, The Border Crossed Me (Toma Chagalishvili, 2016). Il villaggio di Churvaleti, a nord del Paese, dalla fine del conflitto con la Russia nel 2008 vive sul confine marcato da un surreale filo spinato che divide la comunità in due con tanto di pattuglie e clandestini escamotage per aggirarle. Immancabile la passerella di organizzazioni internazionali tra cui una impotente delegazione vaticana. Dello stesso anno è il lungometraggio Dede (Mariam Khatchvani) un melodramma coinvolgente seppur a tratti caramelloso sulla questione femminile che segue la storia di una donna incastrata tra libera scelta e ossequio alla tradizione.

Si parla ancora di conflitti latenti o risvegliati in The Harvest (Misho Antadze, 2019) e in The Tower di Salomé Jashi, (2018). Nel primo documentario nella regione di Kakheti torri di internet, droni e computerizzazione convivono con carrozze e agricoltura, d’altronde, chi non sa che la Georgia è il terzo esportatore di bitcoin? Nel secondo la regista in soli quattro minuti mette al centro della scena la torre del villaggio di Ksuisi, un tempo luogo di aggregazione e dopo il conflitto del 2008 «rimasta» sul territorio georgiano mentre gli abitanti vivono in un centro per sfollati. Rati Oneli documenta con il suo City of The Sun (2017) la città di Chiatura in una zona ex mineraria semiabbandonata. I suoi personaggi sembrano cugini lontani di quelli di Still Life di Jia Zhangke: in uno scenario lunare avvolto dalla nebbia la vita che resta, la natura morta, è quella di un insegnante di musica che demolisce la città, di un minatore diviso tra la sicurezza del suo stipendio e la recitazione, di due atlete giovanissime e denutrite che si allenano per i sogni di gloria di un Paese affaticato. E come nel film del regista cinese la malinconia pesa sulle vite come i cambiamenti che il tempo impone.