Bruno Trentin lettore di Montaigne
Il divano Dai «diari 1988 - 1994», le note sulla lettura degli «Essais»
Il divano Dai «diari 1988 - 1994», le note sulla lettura degli «Essais»
In libreria, a Parigi, il 2 aprile del 1992. Annota Bruno Trentin nel suo diario: «…comperare libri, il mio desiderio di riprendere letture frettolose dell’adolescenza: Montaigne. Piove a Parigi come a Roma. Un tempo triste e sfasciato come questo periodo politico». Mesi cruciali per i casi italiani questi dell’anno 1992. Le inchieste sulla corruzione. Le elezioni politiche il 5 aprile. L’uccisione di Giovanni Falcone il 23 maggio e di Paolo Borsellino il 19 luglio. La firma dell’accordo con il governo sulla scala mobile e le sue dimissioni da segretario della Cgil il 31 luglio. Il 13 agosto appunta: «Ho cominciato a leggere – in fondo per la prima volta – gli Essais di Montaigne. E sono molto colpito dall’acutezza e dalla modernità di alcuni scritti (come quello sul bisogno di transfert, di oggettivare la causa del proprio dolore o del proprio malessere, anche a costo di assumere un oggetto altro, purché funga da simbolo)».
Nei Saggi, Trentin trova un riscontro, rileva una consonanza con i suoi pensieri, tanto imprevista quanto intensa. E forse vi scopre un modo di elaborare inquietudini che lo tengono e ansie. «Leggo Montaigne nel prato verde dell’Albergo di Hans e ritrovo il piacere, l’emozione della scoperta. La scalata di domani non mi fa più paura. E nemmeno la dura prova che mi attende a settembre. Pezzo per pezzo alcune riflessioni sulle vicende di luglio si sedimentano, purgate dall’ansia e dal risentimento». Del resto, in alcune pagine del diario, è affidata alle parole di Montaigne la perfetta resa della condizione nella quale egli si trova.
Stato d’animo ma, forse più esattamente, una consapevolezza che è il risultato di quel costante interrogarsi sul senso dei suoi studi e delle sue azioni. Trentin constata lo scarto che rende vane le sue ragionate convinzioni circa il che fare. Avverte come questo vallo sia il portato storico delle mancate iniziative disegnate e non condotte a compimento; di scelte dichiarate e non perseguite; di consuetudini inerziali che fanno ostacolo. Al netto degli errori, emergono l’inettitudine e il tornaconto. Il risultato è un accumulo di scorie che si frappongono, impediscono e deformano ogni ragionevole e ponderato proposito. Perché i detriti offrono appoggio alle false soluzioni, alle suggestioni loquaci, agli espedienti prolissi e fumosi che mascherano le opzioni di personale convenienza, le operazioni di meschino cabotaggio.
Una tra le prime considerazioni di Trentin a margine della lettura degli Essais recita: «tutte le ideologie sopravvissute, dal riformismo al comunismo, nella fase che precede nella sinistra il formarsi di nuove ideologie – espressioni organiche e ideali di progetti concreti – sono destinate a essere unicamente assolutorie e giustificatorie di comportamenti politici concreti completamente avulsi dal progetto originario che le ha viste nascere». Il patto con il governo di Giuliano Amato del 31 luglio ha stritolato, secondo Trentin, «qualsiasi riferimento a principi e programmi, lasciando soltanto lo spazio a schieramenti e soldi, potere e contropartite per gli esclusi». E aggiunge: «come scrive Montaigne, con questo ‘codice’ che esprime bene la ‘perdita di senso’ della politica, almeno in forze che portano nel loro codice genetico una volontà di cambiamento e di riforma, di modifica dei vecchi equilibri di potere fra le classi e i gruppi sociali, una trattativa sindacale diventa marchander».
A dicembre, a New York, alcune righe dedicate alle iniziative della Cgil da organizzare nel prossimo gennaio. Confessa il «bisogno di molta solitudine» e trascrive un brano dal De la solitude degli Essais: «Noi ci portiamo appresso le nostre catene: questa non è libertà piena, noi volgiamo gli occhi verso quello che abbiamo lasciato, ne abbiamo piena la fantasia. Il nostro male ci afferra nell’anima: ora, essa non può sfuggire a sé stessa, così bisogna emendarla e rinchiuderla in sé: è la vera solitudine, della quale si può godere in mezzo alle città e alle corti dei re; ma la si gode più comodamente in disparte. Bisogna riservarsi una retrobottega tutta nostra, del tutto indipendente, nella quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine».
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