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Trecento volte New Orleans

Trecento volte New Orleans

Anniversari/Il 7 maggio 1728 veniva fondata la Crescent City, un crogiuolo di etnie, umori e ritmi La città che ha dato i natali ad alcuni tra i maggiori artisti jazz, da Buddy Bolden a Louis Armstrong, a Sidney Bechet

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 19 maggio 2018

Percorrendo Decatur Street si viene progressivamente avvolti da una serie di odori che, mescolandosi assieme, inebriano il cammino passo dopo passo. L’odore salmastro proveniente dalle acque del grande fiume posto sulla destra, confluisce in quello dolciastro della pasticceria Cafe du Monde di fronte e nella fragranza difforme delle spezie provenienti dalle ristorazioni poste sulla sinistra, in prossimità di Jackson Square. Un coacervo di stimolazioni sensoriali lento e costante che trova il culmine nel crocevia pedonale, davanti alla imponente piazza. A quel punto, non resta da far altro che salire lungo l’argine del Mississippi, guadagnando qualche metro in altezza, al fine di trovare il luogo migliore per osservare la Crescent City: da un lato la maestosità del corso d’acqua, dall’altro l’intera città di New Orleans. Che soltanto trecento anni fa non era altro che un lungo andare e venire di boschi e paludi. Fino a quando il 7 maggio 1718, data di riferimento pur se opinabile, le cose cambiarono. Per sempre.

SACRI TESTI
I sacri testi raccontano che fu Jean-Baptiste Le Moyne, esploratore franco-canadese, all’epoca governatore della Lousiana, a ordinare la costituzione di una piccola comunità, con l’intento di avere un caposaldo militare di controllo per l’intera area geografica. Scherzo del destino, a Le Moyne fu sin da giovanissimo affibbiato il soprannome di «The Boy Commander»: un nickname che potrebbe calzare alla perfezione a un qualsiasi musicista della attuale scena artistica della città. La quale sin dai primi mesi del 2017, ha organizzato e messo in scena una serie di appuntamenti istituzionali e culturali per festeggiare il proprio genetliaco. L’apice di questi si è avuto lo scorso 6 maggio, in occasione della quarantonovesima edizione del Jazz & Heritage Festival, colossale kermesse che è da anni uno dei maggiori eventi musicali degli Stati Uniti.
Il concerto di chiusura è stato affidato a Trombone Shorty & Orleans Avenue, ovverosia il prodotto migliore della Crescent City dal post Katrina in poi. Una folla enorme ha applaudito il live del figliol prodigo, in una sorta di estatica e danzante cerimonia laica dell’intera comunità, turisti musicali inclusi, celebrando sé stessa sia dal punto di vista anagrafico che culturale nel modo migliore e più adatto: a suon di musica. L’incrocio di ritmo, armonie e melodie non manca davvero mai, è parte della quotidianità: dallo stesso argine di cui sopra, è usuale scorgere, ieri come oggi e sicuramente domani, frotte di «street musicians» esibirsi nella centralissima Jackson Square. Sono loro la concretizzazione dell’anima più profonda della Crescent City e permettono a chiunque di entrare immediatamente in contatto con l’essenza di un’intera cittadinanza, molto poco statunitense e di contro fortemente universalista. D’altronde sin dai tempi di Congo Square, l’odierna piazza circondata dal Louis Armstrong Park a nord del French Quarter, un battito incessante è colonna sonora della storia di Nola (altro soprannome della città).
Era il 1817 quando l’allora sindaco decretò che agli schiavi venisse concesso uno spazio dove riunirsi nel loro giorno libero, la domenica: quel terreno venne appunto ribattezzato Congo Square e divenne il posto dove gli schiavi neri tornavano a essere di nuovo africani. Lì, idealmente, venne forgiato un suono atavico, lontano progenitore di quello odierno. Che oggi è portato avanti dai Bamboula 2000, formazione di percussionisti e danzatrici attiva da oltre vent’anni, che a quella tradizione si rivolge, grazie anche al lavoro sociale svolto dalla consanguinea Congo Square Preservation Society. La band, capitanata dallo storico leader Luther Gray, ha in The Wild Bamboulas del 2014 la sua miglior pubblicazione. Ben si comprende quindi come a New Orleans, tutto abbia un suono: che si tratti di strade, parchi, piazze, movimenti sociali, fenomeni di costume, murder ballad, funerali, storie d’amore, di libertà e mille altre narrazioni, tutto o quasi, ha una canzone che lo racconta.
È il caso della battaglia svoltasi nel gennaio 1815 tra Stati Uniti e Gran Bretagna, quando Andrew Jackson, poi settimo presidente degli Usa, sbaragliò i britannici al comando di un esercito composto anche da schiavi liberati. L’impresa valse al generale americano l’ingresso nella storia sia con l’intestazione nel 1851 di Jackson Square, sia con varie canzoni a lui dedicate, in primis l’interpretazione del losangelino Johnny Horton di The Battle of New Orleans, 45 giri contenuto in The Spectacular J. Horton del 1959, che divenne canzone dell’anno per Billboard e vinse nel 1960 il Grammy nella categoria «Best country & western».
Nel frattempo la città iniziava lentamente ad assumere la forma urbana e la composizione sociale con cui la si conosce: la presenza di afroamericani, creoli, sudamericani, europei e italiani, siciliani in particolare, era oramai un dato di fatto. Altrettanto i fenomeni razziali che imperversavano nel pieno della loro forza. Da quel confuso periodo stavano però arrivando figure leggendarie che avrebbero cambiato per sempre il corso della musica mondiale. Nasceva nel 1887 Charles «Buddy» Bolden, il cornettista considerato iniziatore del jazz. Scomparso a soli 54 anni nel manicomio locale, dopo vi trascorse 24 anni, pur non registrando mai nulla in vita, è la figura di riferimento per la nascita del jazz. Rintracciabile ufficialmente nella registrazione del 26 febbraio 1917 con il brano Livery Stable Blues che vide protagonista la Original Dixieland Jazz Band, quintetto dove spiccava un altro cornettista d’eccezione, Nick La Rocca. Anch’egli neworleansiano fino al midollo, possiamo immaginarcelo ronzare attorno a Bolden, attraversando in lungo e largo il quartiere a luci rosse di Storyville. E non era di certo solo.

UN RETICOLO
In quel reticolo di strette vie dove postriboli e illegalità di vario genere veleggiavano floride, erano in tanti a cercare di sbarcare il lunario. Oltre La Rocca, una masnada di ragazzi stavano per cambiare il mondo: il pianista Jelly Roll Morton nasceva nel 1890, il sassofonista Sidney Bechet nel 1897 e Louis Armstrong nel 1901. Ognuno di loro ha lasciato un segno indelebile, basti pensare al monumentale cofanetto The Complete Library of Congress Recordings dove Morton suona e racconta sé stesso e Nola ad Alan Lomax, o all’entusiasmante periodo di incisioni di Bechet alla Blue Note (1939-1953). Ma indubbiamente Satchmo, tra carisma e talento è ancor più adeso al profilo di New Orleans. Non capita tutti i giorni di avere un aeroporto dedicato, soprattutto se conseguenza di un simpatico inizio: Armstrong da bambino cantava all’angolo delle strade e non era propriamente un tipo tranquillo. Nel capodanno del 1912, a soli undici anni, fu pizzicato a sparare in aria con una calibro 38: la pena inflitta fu l’entrata nel riformatorio minorile denominato «Colored Waifs Home». Fu la sua fortuna: lì gli fu regalata la prima cornetta e incontrò il maestro Peter Davis. Il piccolo Louis non era il solo ragazzo scapestrato della Home, a fargli compagnia c’era anche William Thomas Dupree. Che iniziò il suo rapporto con la musica allo stesso modo, incontrando lì il pianoforte per la prima volta. Sarebbero occorsi ben 107 match di box vinti, per arrivare al nomignolo di «Champion» e bisognerà attendere il 1956 per avere tra le mani Blues from the Gutter (Atlantic), ma alla fine anche Champion Jack Dupree e il suo piano blues ebbero la giusta consacrazione.
Nel frattempo il luogo di perdizione, dove tutto era possibile, veniva chiuso: il 12 novembre 1917 Storyville cessava di esistere, lasciandosi alle spalle i suoni del ragtime e del jazz e l’arte della fotografia, si vedano gli scatti memorabili riservati alle prostitute da E.J. Bellocq che nel 1970 vennero esposte al Museum of Modern Art di New York.
La capacità di incidere nel costume e nell’arte di quell’epoca, toccò anche le corde della sensibilità cinematografica, come dimostrò nel 1978 Pretty Baby di Louis Malle, film con, tra le altre Susan Sarandon e Brooke Shields. Oltre alle luci, anche le ombre godevano del giusto spazio a Nola, come testimonia la storia a metà tra realtà e finzione di «The Axeman», serial killer che nella primavera del 1919 si presentò con una serie di omicidi a colpi d’ascia. I malcapitati venivano assassinati direttamente nei loro letti, ad eccezione di quelli che, a mezzanotte e un quarto, si fossero fatti trovare con una jazz band in concerto in casa. Il terrore si concluse nell’ottobre dello stesso anno con un doppio esito: dieci omicidi e un terreno fecondo per le migliori murder ballad. Che trovarono la loro elegia nel 1984, grazie al disco The Axeman’s Jazz della rock band australiana Beasts of Bourbon.
Negli anni seguenti l’andamento artistico e sociale subì un drastico ribasso, esattamente in linea con quanto accadde nel resto del paese fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Buona parte della scena jazz era migrata verso altri lidi, anche a seguito della fine di Storyville. Un periodo buio, scosso da un evento drammatico, la grande alluvione del fiume Mississippi del 1927, che ebbe esiti nefasti non solo nell’omonimo stato, ma in tutto il Deep South. Charley Patton e Bessie Smith la raccontarono nelle loro canzoni, ma anche a New Orleans ci si fece rispettare. A tenere alta la bandiera fu la blueswoman Lizzie Douglas, anch’ella classe 1897, meglio nota come Memphis Minnie. La quale assieme al marito Kansas Joe McCoy scrisse l’eterna When the Levee Breaks, ripresa qualche anno più tardi dai Led Zeppelin. La piena delle acque catturò anche il grande Randy Newman, che nell’ottimo Good Old Boys del 1974, inserì la struggente Lousiana 1927. Nel frattempo, stava per arrivare una nuova generazione di talenti che, immediatamente dopo il conflitto, sarebbe esplosa in tutta la sua vitalità artistica.
New Orleans dagli anni Quaranta in poi iniziò progressivamente a elettrificare il proprio sound, aumentando la potenza ritmica della second line e facendo confluire tutto questo nei suoni nuovi e freschi del rock’n’roll, del funk, del soul e del rhythm’n’blues. Le intenzioni, le idee e le parole di quella nuova onda avrebbero raccontato l’iridescenza dei giovani, la forza prorompente delle lotte per i diritti civili, la volontà di avere una vita migliore. Archiviata la guerra, c’era in città una gran voglia di fare. Le strade e i club pullulavano di artisti ancora sconosciuti, ma che avrebbero fatto a breve la differenza.
Bisognava però dare un ordine a tutto questo, localizzare le smanie creative e connettere i musicisti con le etichette dei padroni. C’era bisogno di uno studio di registrazione. Arrivò nel 1945, grazie a un diciannovenne del posto, ma di palesi origini siciliane, dal nome Cosimo Matassa. Qualche anno fa così si esprimeva: «Avevo pensato di aprire il J&M Recording Studio semplicemente per fare due soldi. Non pensavo che sarebbe durato molto. Inoltre avevo studiato chimica e non avevo le competenze per registrare. Però avevo un sacco di buona volontà. E a orecchio, entrando e uscendo dalla sala durante le sedute di incisione, compresi in che modo affrontare il lavoro».
Matassa e il suo studio posto sulla N Rampart Street fecero letteralmente la storia. Così si espresse il grande Allen Touissant: «Cosimo per noi musicisti è stato la porta e la finestra sul mondo. Esperto, con una gran cuore e una bella anima. E quando i Beatles sentirono Fats Domino, lo ascoltarono grazie a Cosimo. Ha saputo parlare al mondo».

DOPPIO COFANETTO
Da lui passò chiunque: Roy Brown nel 1947 registrò Good Rockin’ Tonight, la prima nel genere, il 10 dicembre 1949 Fats Domino incise The Fat Man con Dave Bartholomew presente in studio come produttore; Jerry Lee Lewis partì da quello studio, più avanti sarebbe toccato a Little Richard con Tutti Frutti, e ancora Professor Longhair, Ray Charles, Huey «Piano» Smith, Clarence «Frogman» Henry e mille altri. Era ufficialmente nato il New Orleans sound del dopoguerra, oggi rintracciabile in un doppio cofanetto di otto dischi, intitolato The Cosimo Matassa Story. Quello che per Domino era rhythm’n’lues e per altri rock’n’roll, non era uno stile solo di sua pertinenza. Praticamente coevo di The Fat Man, fu anche il 45 giri contenente Bon Ton Roula di Clarence Garlow, chitarrista e cantante della West Lousiana. Il brano è una intrigante e danzereccia miscela di zydeco e blues. Caso vuole che il tema è divenuto nei decenni a seguire uno dei più suonati dalle brass band locali. La versione migliore la si deve a Bo Dollis & The Wild Magnolias, che lo inclusero nel seminale I’m Back… At Carnival Time del 1990. Per dar voce a Matassa e soci, occorreva però una radio. Non che nel 1949 non ve ne fossero, ma fino all’avvento di Jivin’ with Jax del dj Daddy-O, si potevano ascoltare soltanto i bianchi.
Vernon Winslow fu il primo speaker african-american, un pioniere che fece breccia grazie all’emittente Wmry. Negli anni successivi il suo radio-show si trasferì addirittura direttamente negli studi di Matassa, con la backing band di Bartholomew a suonare dal vivo. Con gli anni ’50 le cose acquisirono una velocità sempre maggiore e le icone, divennero tali: Professor Longhair nel 1953 realizzò Tipitina che come b-side conteneva un’altra perla dal titolo In the Night, e con questo 45 giri, finalmente, fece conoscere il proprio talento ovunque. Stesso discorso nel 1956 per Eddie Bo, con il singolo I’m Wise (Apollo Records). Altrettanto per il geniale James Booker che grazie alla Ace Records realizzò nel 1958 Open the Door/Teenage Rock, facendosi poi attendere fino al 1974 per avere The Lost Paramount Tapes, suo primo 33 giri.
Nel mentre, il diciassettenne Allen Toussaint esordiva nel 1955 dal vivo con Huey «Piano» Smith e due anni dopo registrava con Fats Domino. Nel mezzo di questa prorompente scena, il cinema continuava a guardare con interesse alla spendibilità del nome «New Orleans». La città del jazz di Arthur Lubin del 1947 aveva chiamato a recitare tra i vari Billie Holiday e Satchmo, quest’ultimo nel ruolo di sé stesso. Nel 1951 A Streetcar Named Desire (Un tram che si chiama desiderio) di Elia Kazan con Vivien Leigh e Marlon Brando, viene ambientato in città, consegnando per sempre alla storia le streetcar, i tram.
Nel 1958 esce King Creole (orrendamente tradotto in Italia con La via del male) di Michael Curtiz con Elvis Presley protagonista e splendido interprete della canzone Crawfish. La Crescent City diventa un’appetibile prodotto commerciale, come dimostra l’adattamento televisivo del John Pela Show, programma che propone le nuove uscite commerciali con frotte di giovani danzanti, quasi sempre bianchi, in studio.
In contemporanea arrivano però le prime azioni concrete del Civil Right Movement. Spartiacque contro le leggi Jim Crow fu proprio il 1960, anno in cui l’afroamericana Oretha Castle Haley, si sedette in un locale di Canal Street a pranzo, ben sapendo che non sarebbe stata servita. Un gesto politico importante e pieno di coraggio, non distante dal bus di Rosa Parks. La Haley e con lei altri tre militanti, vennero multati, arrestati e incarcerati per sessanta giorni. Il fatto divenne uno dei capisaldi della lotta alla segregazione in Louisiana. E non viene difficile immaginare Haley a cantare A Change Is Gonna Come di Sam Cooke, che nel 1964, raccontava del rifiuto per motivi razziali che il grande artista si era sentito porre in un albergo dello stato, alla sua richiesta di alloggio. Alla seduta di registrazione della hit, partecipò in veste di pianista e arrangiatore Harold Battiste, personaggio poco noto ma che a suo modo lasciò una traccia indelebile. Fu direttore musicale dei singoli The Beat Goes on e Bang Bang di Sonny & Cher, suonò stabilmente nell’American Jazz Quintet del concittadino Ellis Marsalis e produsse nel 1968 Gris-Gris, l’esordio di Dr. John.
Più o meno assiduamente, tutti i musicisti neri fino al 1970 erano di casa al Dew Drop Inn, sorta di juke joint nella parte segregata di Nola. Il locale fu per oltre trent’anni il punto di riferimento per generazioni di artisti, includendo Ray Charles e Ike & Tina Turner, programmando anche i primi spettacoli offerti dalle drag queen, dando così uno spazio alla ghettizzata comunità omosessuale e transgender. Little Richard ne celebrò l’importanza in Dew Drop Inn, uno sfrenato r’n’b presente in The Rill Thing del 1970. Anno da ricordare quello: per la prima volta andò in scena a Congo Square il Jazz Fest, dove si esibì tra gli altri Woody Allen, ma a brillare fu la stella congiunta della regina Mahalia Jackson e di Duke Ellington, il quale pochi giorni dopo incise in città l’emozionante New Orleans Suite. Nel mentre, i giovani ma già affermati The Meters, venivano ingaggiati per un «private party» agli J&M Studios, come raccontato da Aaron Neville: «…Scoprimmo che il pubblico era costituito da quattro ragazzi bianchi, i Led Zeppelin».

FUNK MUSCOLARE
Il funk nella sua accezione più muscolare si era nel frattempo impadronito dei palcoscenici, dove oltre i Meters dei primi quattro album, faceva faville Eddie Bo nelle sue infinite formazioni e mille pseudonimi, lasciando il segno in centinaia di registrazioni, una su tutte, il singolo Check Your Bucket. Vita breve ma significativa la ebbero The Gaturs, supergruppo capitanato da Willie Tee che con un solo album, Wasted del 1970, entrarono nella storia. L’apice artistico di quegli anni venne raggiunto dai The Wild Magnolias with the N. O. Project, miscela perfetta di suoni brass di strada e funk elettrico: disco di inusitata bellezza. L’onda lunga di quella stagione si è ripercossa fino al termine dei Novanta, grazie alle varie combinazioni di gruppi che implementando praticamente l’intera famiglia Neville e una ridda di session men, hanno continuato una fervente attività concertistica. L’innovazione di maggior peso è arrivata nel 1994 grazie al rapper Juvenile e al suo Being Myself, contenente il singolo Bounce for Juvenile, manifesto della bounce music, il versante hip hop della Crescent City.
Oltre questo, ciò che però emerge nell’ultimo quindicennio, è la forza e la freschezza degli artisti di strada. Una fucina ininterrotta di formazioni che rifacendosi all’età del jazz e al ragtime, ai suoni folk, americana e blues, continuano ininterrottamente a rendere effervescenti e vibranti l’ambiente. Creando il contorno perfetto alla tradizionali second line, che tra jazz funeral, concerti regolari e improvvisati e l’annuale Mardi Gras, trovano ancora oggi la dimensione perfetta. Le crew dei Wild Indians, splendidamente descritte nel disco in spoken word di John Sinclair in Underground Issues, sono a oggi la vera spina dorsale della street culture locale. Tradizionali e permeabili al tempo stesso, sono in omestasi autentica tra sostanza e forma, grazie anche ai vestiti di scena creati nelle famiglie afroamerican. Mentre nomi come Trombone Shorty, Little Freddie King, Irvin Mayfield, Amanda Shaw, John Baptiste, Christian Scott aTunde Adjuah, The Revivalist, Big Freedia, The Hot 8 Brass Band e altri infervorano un radioso presente, c’è qualcosa di più entusiasmante. Basta tornare a Jackson Square, dove lo «shoeshine boy», il lustrascarpe, non è più lì a sbarcare il lunario. Ma è sicuramente sui marciapiedi a ballare un frenetico e poco organizzato tip-tap mentre inanella un canto a metà tra un rap e un holler. Dal vostro argine che sovrasta Jackson Square, potete vederlo: guardatelo con attenzione, è lui il presente, prima di essere futuro. Due bellezze artistiche in un corpo solo.

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