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Tre Leoni, la mano di Dio e un pallone nel museo del football

Tre Leoni, la mano di Dio e un pallone nel museo del footballUno spazio espositivo del Museo del Football di Manchester

Storia e parafernalia del calcio, dal manuale con le regole del gioco al Cantona dei Red Devils nel ruolo di Gesù, passando per il menisco di Cunningham

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 22 febbraio 2014
Luca ManesMANCHESTER

Invece di bruciarla, gli inglesi l’hanno messa in bella mostra nel loro museo del calcio a Manchester, che abbiamo visitato in un freddo ma stranamente soleggiato pomeriggio. Ci riferiamo alla maglia dell’Argentina di un inusuale blu elettrico indossata da Diego Armando Maradona il 22 giugno 1986 allo stadio Azteca in occasione del match valido per i quarti di finale del mondiale messicano. Una partita dalle tinte forti, con le ferite ancora aperte della guerra per le isole Falkland/Malvinas a fare da sfondo al confronto tra due delle scuole calcistiche più importanti e gloriose del pianeta. Quel giorno è ricordato per il goal più bello della storia della Coppa del Mondo. E per la «mano di Dio».

Quella camiseta con il 10 impresso sulle spalle capitò per caso nelle mani di Steve Hodge, proprio il centrocampista dei Tre Leoni protagonista dello sciagurato retropassaggio che favorì il “colpo proibito” che beffò un esterrefatto Peter Shilton e fece imbufalire milioni di appassionati inglesi. Hodge, una buona carriera soprattutto al Nottingham Forest allenato dal vulcanico Brian Clough, ha addirittura scritto un libro dal titolo L’uomo con la maglia di Maradona, in cui spiega che la ottenne perché fu l’ultimo a uscire dal campo dopo aver concesso un’intervista alla Itv e, incontrato il fuoriclasse argentino nel tunnel degli spogliatoi, gli chiese di fare l’ormai celeberrimo “baratto”. «Non ho mai portato rancore nei suoi confronti e considero un onore aver fatto scambio di maglia con lui. Chissà se ha ancora la mia» ha dichiarato Hodge qualche tempo fa al quotidiano inglese The Independent, cui ha anche riferito di aver ricevuto offerte «molto cospicue» per una delle memorabilia sportive più bramate di sempre, preferendo invece donarla al museo.

Di pezzi rari nell’avveniristico palazzo tutto vetri e acciaio nel cuore di Manchester ce ne sono in abbondanza, per lo più tutti messi a disposizione su base temporanea o permanente da grandi collezionisti. C’è la maglia indossata da un Pelé ancora ragazzino ma già fenomenale al suo esordio ai Mondiali di Svezia 1958 contro l’Urss, una divisa appartenuta all’immenso Alfredo Di Stefano e quella usata da Rivelino nel fatidico (per noi italiani) match di finale di Città del Messico del 1970. E ancora l’elegante trofeo originale che spettava ai vincitori della Coppa delle Coppe, competizione defunta nel 1999.

Ma oltre a questo, il museo ha l’obiettivo di ripercorrere un secolo e mezzo di storia del football britannico, con una sezione dedicata al panorama internazionale. Si parte allora proprio dalle origini, da un libretto dove si possono leggere, scritte a mano in bello stile dal segretario della neonata Football Association Ebenezer Cobb Morley, le regole del gioco. Quel prezioso documento risale al 1863, quando il football era uno sport per ricchi, per i rampolli della upper class che frequentavano le esclusive public schools. Istituti che, a dispetto del nome, rimangono ancor oggi privati e molto costosi, e che in piena epoca vittoriana tendevano tutti ad avere una propria “interpretazione” del gioco. Il calcio si diffuse in tutta l’isola, si disputò la prima sfida tra i “vecchi nemici” di Inghilterra e Scozia – e una maglia di lana di un bianco ormai sbiadito con i tre leoni sul petto ce lo ricorda in una delle teche delle sale iniziali. Verso la fine del Diciannovesimo secolo la working class delle Midlands e del Nord del Paese “scippò” il football all’alta borghesia e alla nobiltà. Fu così che nacque il professionismo.

Nel 1888 la Football League organizzò il primo campionato dell’allora First Division, progenitrice dell’attuale Premier. Nel frattempo si erano già tenute una quindicina di edizioni della FA Cup, vinte da squadre amatoriali espressione delle varie public school. I cimeli del Preston North End, prima grande squadra della storia tanto da meritarsi il soprannome di «invincibili» (trionfarono imbattuti proprio nel campionato 1888-89), fanno il paio con il pallone color cioccolata della finale di coppa del 1903, vinta dal piccolo Bury nientemeno che per 6-0 sul Derby County. A proposito di FA Cup, come non citare la divisa da gioco di un arancione non più tanto brillante del “mago” Stanley Matthews, che nel 1953 con il Blackpool si aggiudicò l’unico titolo di rilievo della sua lunghissima carriera (terminata a 50 anni allo Stoke City) in occasione del rocambolesco 4-3 in rimonta inflitto al Bolton Wanderers.

Nell’esauriente racconto dei curatori del museo non ci sono solo i “ferri del mestiere”, palloni, scarpini e maglie, ma vengono inseriti anche i parafernalia dei tifosi. Le rumorose raganelle di legno, il classico flat cap anni Trenta lasciano spazio alle prime sciarpe fatte in casa, ma anche, agli strumenti di offesa degli hooligan, tirapugni e coltelli Stanley inclusi.

La narrazione non risparmia nulla, e quindi non omette le violenze delle frange estreme e i disastri negli stadi di fine anni Ottanta. Le immagini del rogo di Bradford, che anticipò di pochi giorni la tragedia dell’Heysel fanno il paio con le sconvolgenti testimonianze video dell’Hillsborough. Proprio la morte di 96 supporter del Liverpool durante una semifinale di FA Cup tenutasi nell’inadeguato impianto dello Sheffield Wednesday spinse le autorità sportive e governative a chiedere un ammodernamento delle arene calcistiche britanniche. Tanti stadi sparirono o furono rifatti da capo. Niente più gradinate (le famosissime terraces) dove guardare la partita in piedi, casomai appoggiati sulle crush barrier, una delle quali, “trasferitasi” dalla vecchia casa del Chesterfield, ha trovato ospitalità in un angolo del museo.

Ma non potevano mancare i momenti di gloria del football dei Maestri. Tanti quelli legati ai club – vedi le maglie di Nobby Stiles del Manchester United (1968) o di altri esponenti del Liverpool a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, tutti protagonisti di leggendari trionfi in Coppa dei Campioni. Meno scintillante, è risaputo, è la storia della nazionale, che a partire dall’umiliante 6-3 a domicilio subito dall’Ungheria di Puskas, Kocsis e Hidegkuti (citata con preziosi reperti di quella giornata) realizzò in maniera definitiva di non essere la dominatrice assoluta che era stata all’alba del secolo scorso.

Ci volle un mondiale casalingo per vincere la coppa dedicata a Jules Rimet, la cui copia (che abbiamo ammirato nel museo) fu consegnata dalle regina nelle mani di Bobby Moore un pomeriggio del luglio 1966. Quella originale era stata rubata e poi ritrovata per caso da un cagnetto di nome Pickles dietro un cespuglio nel sud-est di Londra, per poi essere trafugata definitivamente in Brasile nel 1983. E a proposito del compianto capitano dell’Inghilterra e del West Ham negli anni Sessanta, la sua foto mentre si scambia la maglia con Pelé a Messico 1970 è una delle immagini più iconiche del football mondiale. Ebbene quel prezioso indumento indossato dal biondo Bobby è arrivato fino a Manchester direttamente dal Brasile, dove per decenni ha soggiornato in un bar di Rio de Janeiro. È un po’ maltrattato e macchiato di nicotina, ma conserva tutto il suo fascino.

Meno “attraente” è il menisco asportato nel 1960 al carneade Willie Cunningham. Lo si può scrutare, se proprio non si può farne a meno, nella sezione ad hoc su come si sono evolute le cure e i trattamenti fisioterapici per il calciatori. All’epoca il buon Willie per tornare in campo ci mise oltre sette mesi, sicuramente con un bello sfregio sulla gamba. Ora l’operazione al menisco è roba quasi a livello ambulatoriale, con tempi di recupero di una manciata di settimane.

I tempi cambiano, così come i giochi sul calcio. Alla teca con l’intramontabile Subbuteo e i suoi predecessori (pezzi rari con oltre 100 anni di storia alle spalle), fanno da contraltare spazi di «realtà virtuale calcistica», dove si possono tirare rigori o provare a parare tiri dei fuoriclasse del football mondiale.

Per finire, siccome siamo a Manchester, un doveroso omaggio a uno dei simboli dello United: Eric Cantona. Si chiama «The Art of the Game», è il dipinto a dir poco singolare e velatamente blasfemo in cui l’artista Michael J. Browne (evidentemente un frequentatore dell’Old Trafford) sostituisce ai volti dei protagonisti del celebre quadro di Piero della Francesca «la Resurrezione di Cristo» quelli dei campioni dei Red Devils degli anni Novanta. Pleonastico specificare a chi spettasse il “ruolo” di Gesù…

 

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