Economia

Tre governi in uno opposti e concorrenti, ma nessuna intesa all’orizzonte

Tre governi in uno opposti e concorrenti, ma nessuna intesa all’orizzonteIl presidente del Consiglio Conte e i vice Di Maio e Salvini – LaPresse

Manovra Dentro l'ircocervo legastellato, tra flat tax, salario minimo e taglio del cuneo fiscale. Tre linee divergenti cercano una sintesi in una falsa unità e nell'assoluta contrapposizione

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 27 luglio 2019

L’ultimo episodio di bullismo ai danni del ministro dell’economia Giovanni Tria deriva dal fatto che nella commedia del triplice governo legastellato non c’è accordo sulla «flat tax». Quando infatti il ministro di tutto Salvini dice di Tria «O Io o lui» sa bene che quest’ultimo pensa a una diminuzione degli scaglioni Irpef nei prossimi anni, un’idea che si avvicina a quella dei Cinque Stelle che contrastano attivamente l’offensiva sul presunto «choc fiscale» annunciato dai leghisti.

Lo ha confermato Tria al tavolo con i sindacati tenuto l’altro ieri a Palazzo Chigi, la sede del governo numero uno. «Dovrà essere fatta «con progressività di attuazione, secondo gli spazi fiscali che si creano, partirà in modo semplice e sarà corretta a favore di una minore pressione fiscale progressivamente e facilmente». Tutt’altra versione sarà data nella sede del governo due, il Viminale, dove tra il 6 e il 7 agosto le parti sociali sono state convocate dal premier facente funzioni, Salvini. Al ministero della polizia che ha allargato impropriamente il suo campo di azione alle politiche fiscali, oltre che ai «porti chiusi» e al blocco delle navi della guardia costiera, si riascolterà l’altra versione: una flat tax al 15% per le famiglie monoreddito fino a 55 mila euro, fino a 65 mila per le famiglie bireddito con figli. Fino a 30 mila euro per i single. Questo provvedimento costerebbe, a dire dell’ex sottosegretario Armando Siri sotto inchiesta, all’incirca 15 miliardi di euro.

La proposta leghista è un regalo fiscale per i redditi medio-alti e una bastonata per quelli bassi. Da ultimo lo ha sostenuto la Uil secondo la quale l’ormai famosa tassa genera un effetto negativo sui redditi fino a 26.600 euro lordi annui. Ad esempio, un lavoratore con un reddito lordo annuo pari a 13.490 euro, vedrebbe un aumento di tasse di circa 1.774 euro, mentre un reddito di 22.830 euro avrebbe un aumento della tassazione di 985 euro.

Questi incrementi sarebbero determinati dall’effetto congiunto della rimodulazione delle detrazioni, delle deduzioni e della trasformazione contabile del bonus degli 80 euro. Nel primo caso si dovrebbero pagare 136 euro di tasse al mese in più, nel secondo 76 euro al mese in più, con un incremento rispettivamente pari al 147% e al 29%. Una famiglia con due redditi da 28 mila euro lordi annui sarebbe penalizzata, mentre un single con 54 mila euro lordi avrebbe un regalo. Senza contare che rischiano di perdere le detrazioni e le deduzioni, se non fanno bene i calcoli. A conclusioni simili sono arrivate Cgil, Confindustria o il Consiglio nazionale dei Commercialisti, il che attesta perlomeno l’iniquità e la regressività della proposta leghista avvertita da tutti. Propaganda classista a parte, gli effetti irrazionali dovrebbero essere noti agli stessi leghisti i quali assicurano che il dispositivo sarà «volontario». Concetto ribadito in queste ore dallo stesso Salvini. Significa: la proposta è un bidone. Alla fine, sarà responsabilità di chi la trova conveniente per le sue tasche averla scelta.

Nel giochino delle parti che si trascinerà per tutta l’estate, e fino a Natale, quello leghista non è l’unico bidone. C’è quello del governo numero tre al quale sono disperatamente aggrappati i Cinque Stelle. Da quel pulpito il malconcio Luigi Di Maio parla della sua legge di bilancio. I concetti di fondo sono: salario minimo legale a nove euro all’ora e taglio del cuneo fiscale fondato sull’esonero del versamento dell’1,6% destinato all’indennità di disoccupazione Naspi da parte dei datori di lavoro. Ciò avverrebbe solo sui contratti a tempo indeterminato. La proposta è stata liquidata da sindacati e imprenditori. I primi perché temono che i lavoratori non avrebbero alcun vantaggio, e i danni sarebbero solo a carico dei contribuenti. I secondi perché trovano esiguo lo sconto di 4 miliardi di euro. Non si è mai soddisfatti da quelle parti, com’è noto. Senza contare le obiezioni dei sindacati alla proposta di salario minimo che resta indeterminata rispetto al problema del rapporto con la contrattazione nazionale.

Escludendo la danza della pioggia per allontanare il pil dallo zero negativo, nel gioco a mosca cieca della politica economica nessuno dei tre governi contenuti nell’ircorcervo legastellato ha idea della sintesi finale. Nelle scazzottate che seguiranno nelle prossime settimane saranno involontari protagonisti anche i sindacati destinati a vagare tra i tavoli convocati dal governo uno, due e tre alla ricerca di una concertazione, «dialogo sociale» lo chiamano i francesi. Finché i gendarmi europei dei conti non suoneranno il gong, una concertazione dovrà essere trovata innanzitutto tra gli schiamazzi degli «alleati». Vincerà chi urla più forte. Salvini pensa che sarà lui, come sempre. Ma non è detto, in questo intrattenimento molesto chiamato ancora «governo».

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