Visioni

Traviata 2.0 La sfida vinta di Tcherniakov

Traviata 2.0 La sfida vinta di Tcherniakovun momento de La Traviata – foto Brescia Amisano, cortesia teatro alla Scala

Scala Il regista russo realizza un adattamento verdiano che parla contemporaneo. Sfidando chi percepisce l'opera come un'illusione del passato. Straordinaria Diana Damrau, Violetta nel corpo e nel gesto

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 9 dicembre 2013

I conservatori per partito o per pigrizia si aspetteranno una recensione al vetriolo sull’allestimento scaligero di Traviata.

Lo spettacolo, a detta di molti, è stato sciatto, irrispettoso delle altezze vertiginose della musica verdiana, contraddittorio con la mistica di Violetta eroina romantica che per amore arriva al sacrificio di sé. Occorrerebbe però conoscere meglio Verdi e i suoi intenti naturalistici per esprimere un’opinione plausibile: «Una puttana è sempre una puttana» ebbe a dire il compositore difendendosi dalle astruse richieste censorie del Teatro La Fenice di Venezia, dove l’opera debuttò, e non finì di lanciare strali contro l’imposizione di retrodatare un dramma di scottante contemporaneità in un fintissimo Settecento. Come dire: il libertinaggio, miscela di sesso e potere, è un fenomeno esclusivo del passato. Come non voler vedere allontanando. Rimuovendo. Eppure la cronaca degli ultimi anni ci dice quanto Settecento sia ancora vivo nella nostra società. Ma torniamo al presente. Lo abbiamo già detto lo scorso luglio per la prima di Un ballo in maschera: è grottesco che un teatro prestigioso come quello

milanese sia preso in ostaggio da un manipolo di vecchi melomani, appassionati certo, competenti di voci forse, di musica poco e di regia per niente. Disperatamente retrogradi e abituati a vivere le prime scaligere come una vetrina in cui mostrarsi a un mondo che altrimenti ignorerebbe (come dargli torto?) la loro esistenza. Il regista Dmitri Tcherniakov è consapevole che con

Traviata Verdi ha realizzato un «un rarissimo esempio di opera lirica che parlava della contemporaneità», sfidando «quelli che percepiscono l’opera come una meravigliosa illusione del passato.

Un’idea che tuttavia non ha più nulla a che fare con chi oggi sta seduto in sala», fatta eccezione per la paleozoica schiatta dei loggionisti scaligeri, che di certo Tcherniakov non conosceva prima di ieri sera. La sua chiave di lettura di una vicenda ormai mitizzata dalla tradizione è la seguente: «Oggi i temi dei mali sociali, della reputazione e dei pregiudizi morali passano in secondo piano. La nostra vita odierna e l’esperienza attuale non danno più risposte univoche, perché tutto è relativo. Abbiamo sperimentato e vissuto tanto. Eppure continuiamo comunque a essere turbati dal nostro rapporto con il sentimento dell’amore». La diversità tra la contemporaneità e il passato verdiano trova la

sua materializzazione nel rapporto tra la Violetta e Annina, che diviene il fulcro dell’intera rappresentazione: geniale l’idea di trasformare la lunghissima cavatina finale del primo atto della protagonista in un dialogo, seppur con un interlocutore muto, tra due prostitute, la giovane e la vecchia, dove tutti i bamboleggiamenti, le moine, i sospiri quintessenza del pathos melodrammatico di tanta tradizione interpretativa vengono scardinati a favore di un atteggiamento più leggero, fatto tutto di ironia, autoironia, scherno, crudo realismo. La giovane fantastica e, vedendo la sua ingenuità montante riflessa negli occhi dell’amica navigata, subito si ritrae e volge in ridicolo quello che si sta concedendo di sognare, cinica come una qualsiasi ragazza dei nostri tempi che non ha esitato a vendersi per un po’ di lustrini e notorietà. Intensa la direzione di Gatti, anche lui fischiato. Grandiosa l’interpretazione di Diana Damrau, che sa piegare la sua voce schiettamente lirica alle sfumature di un’interpretazione varia e potente, incarnazione di ciò che un cantante lirico dovrebbe sempre essere: voce che si fa corpo e gesto.

 

 

 

 

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