Cultura

Trasgressioni armate di una parola che rende sacra ogni violenza

Trasgressioni armate di una parola che rende sacra ogni violenza

L'intervista Parla lo storico Daniele Menozzi, autore di «Crociata. Storia di un’ideologia», per Carocci. Un’indagine tra fede e politica dalla Rivoluzione francese a papa Bergoglio

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 23 febbraio 2021

Le Crociate per liberare la Terrasanta si concludono nel 1270. Poi però la «crociata» diventa «ideologia» e attraversa gli ultimi due secoli e mezzo di storia. In virtù della propria potenza evocativa, la parola viene sottratta all’esclusiva religiosa e utilizzata per sacralizzare guerre – dai conflitti mondiali alla «guerra preventiva» di Bush – e battaglie politico-sociali, contro la scristianizzazione della società moderna o contro il comunismo: non a caso lo scudocrociato è stato il simbolo della Dc. Con il consenso o il silenzio-assenso di molti pontefici che, pur non bandendo nessuna nuova crociata militare, lasciano fare, camminando in equilibrio sul filo dell’ambiguità.

A delineare questo itinerario è Daniele Menozzi, professore emerito di storia contemporanea alla Normale di Pisa, in “Crociata”. Storia di un’ideologia dalla Rivoluzione francese a Bergoglio (Carocci, pp. 234, euro 23). «Il contenuto semantico della parola crociata, estranea al linguaggio delle prime spedizioni militari in Terrasanta – spiega Menozzi – si deve a un’operazione compiuta dalla Curia romana nel ‘400. Il papato, per unificare sotto la propria guida i sovrani cristiani nelle lotte politiche e militari che intende portare avanti, identifica ogni impresa condotta sotto l’egida di Roma come una crociata, spostando sugli obiettivi cui mira il valore sacrale, prima attribuito alla liberazione del Santo sepolcro. È questo trasferimento di sacralità che spiega perché la crociata diventa un efficace strumento cui la politica ecclesiastica della Santa sede ricorre, almeno fino a Pio XII, in circostanze spirituali, missionarie, sociali e politiche».

L’espressione «crociata» viene utilizzata nel 1789 sia dai rivoluzionari (poco) che dai controrivoluzionari; nel 1848 dai patrioti risorgimentali e nel 1870 dai difensori di Roma pontificia; nella Prima guerra mondiale sia dall’Intesa che dagli Imperi centrali e nella Seconda da Hitler che la impiega contro l’Urss di Stalin e gli Usa contro i nazifascisti. Una parola buona per tutte le stagioni?
I processi di secolarizzazione dell’età contemporanea si accompagnano a coevi movimenti di sacralizzazione della politica. Il ricorso al linguaggio della crociata, sedimentato nella memoria e nella coscienza collettiva delle terre cristiane come forma di sacralizzazione della violenza, offre un facile terreno per un’accoglienza di massa di tale transfert.

Sul piano spirituale e ideologico invece si configura con un’accezione reazionaria, nelle battaglie contro la società moderna, nell’anticomunismo…
Pur senza un bando formale, il papato riconosce che è lecito ai fedeli ricorrere al linguaggio della crociata per rispondere a minacce giudicate mortali per la Chiesa: ad esempio nella battaglia per la sopravvivenza dello Stato pontificio, nella guerra civile spagnola del 1936, nella rivolta ungherese del 1956. La parola diventa così patrimonio degli ambienti reazionari che ritengono di dover rispondere al distacco del mondo moderno dalla Chiesa in termini di cieca e radicale contrapposizione, anziché di ripensamento dei suoi errori.

I pontefici moderni non hanno bandito crociate, ma non le hanno nemmeno scoraggiate. Un atteggiamento ambiguo?
Dalla Rivoluzione francese a Pio XII, il papato ha fondato il richiamo alla crociata su un giudizio storico fortemente positivo sulle spedizioni dell’XI-XIII secolo, basato sul mito della cristianità medievale come modello ideale di società cristiana, in cui il papa dettava le regole della convivenza civile a livello globale. Un orientamento che ha costituito un’indiretta legittimazione per quelle correnti cattoliche che attribuivano ai loro specifici impegni politico-sociali lo stesso carattere totalizzante della liberazione del Santo sepolcro. L’autorità ecclesiastica non poteva sconfessare queste forme di mobilitazione, dal momento che avevano fondamento nella sua stessa impostazione culturale.

Con Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II la parola scompare dall’orizzonte del papato. Riappare però con Wojtyla e Ratzinger.
Il «ritorno di Dio» negli ultimi due decenni del ’900 si manifesta anche sotto forma di una giustificazione religiosa della guerra, tanto in ambito cristiano e cattolico che nelle altre religioni. Questo spiega gli sforzi del papato di ripensare il ruolo della crociata. Si rigetta la guerra santa, per attestarsi sulla dottrina della guerra giusta. Ma il mancato inserimento, da parte di Giovanni Paolo II, delle Crociate nella richiesta di perdono nel Giubileo del 2000 segna un arretramento che porterà i fautori della crociata anti-islamica a vedere poi in Benedetto XVI, pur forzandone in parte l’insegnamento, un appoggio alle loro tesi.

E papa Francesco?
Bergoglio rompe con il passato sotto due profili: ricorda che l’assunzione del linguaggio della crociata costituisce una legittimazione antievangelica dello scontro fra gli uomini; e rievoca l’incontro tra san Francesco e il sultano del 1219 per mostrare che anche ai tempi delle spedizioni in Terrasanta c’era un’alternativa ai rapporti tra religioni e popoli basati sulla violenza.

È un punto di non ritorno?
Come altri aspetti dell’insegnamento di Francesco, anche questo è affidato ai credenti: il futuro della crociata dipende dalla loro capacità di assimilare e mettere in pratica il salto di qualità che Bergoglio ha loro proposto su questo ingombrante retaggio della cultura cattolica.

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