Visioni

«Trap», la trappola di Shyamalan a forma di schermo

«Trap», la trappola di Shyamalan a forma di schermoUna scena da «Trap»

Cinema Nelle sale il nuovo film del regista del «Sesto senso», una sfida tra opera e personaggio con autocitazioni. Una grande prova dell’autore statunitense, tra i più inventivi in circolazione. Josh Hartnett è Cooper Adams, vigile del fuoco ad un concerto con la figlia

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 21 agosto 2024

Verrebbe da dire – a questo servono i segni: a rimandare a se stessi, alle infinite permutazioni di sé che fanno l’empirico, che «fanno dire» l’empirico, l’iperuranio, un inesausto intreccio di mondi fatti di linguaggio – La carta e il territorio, alludendo non solo al titolo del bellissimo romanzo di Houellebecq, ma proprio al senso cartografico, strutturale, metaletterario di questo libro, di questa congerie di segni mutante come un organismo diveniente, nel momento in cui iniziano i titoli di testa di Trap di M. Night Shyamalan, nonostante la diversità ideologica tra i due autori: ma la riflessione sull’opera, sui presupposti «organici» dell’opera sembra la stessa.

UN TERRITORIO appunto che nereggia all’inizio del film – tramando con il fondo buio del Nulla in cui s’avviluppano i segni, come aborti, cumuli di cellule sempre insidiati dall’inesistenza; il buio su cui vegeta la paura, gli abomini autoimmuni della psiche più profonda – su cui si tracciano varie isobare, traiettorie, linee di fuga, che saranno quelle tentate per tutto il film da Cooper, il protagonista così perfettamente incarnato dalla fisiologia di Josh Hartnett. Il film, in sala in questi giorni, ulteriore, stupefacente prova di regia, ma proprio dell’inclinazione fantastica di uno degli autori più inventivi in circolazione, è tutta una trappola figurativa da cui il personaggio cerca di uscire sfruttando al massimo le prerogative che il suo autore, o l’opera stessa, endogena, gli ha dato: l’estremo acume, l’istinto di sopravvivenza, la perseveranza con cui resta attaccato alle cose, alla plastica. È la coazione alla fuga che «la carta e il territorio», lo scenario, lo spazio scandito da intercapedini aperte, chiuse di volta in volta nel film, impongono al protagonista: una sfida tra opera e personaggio, tra spazio e coscienza; una tenzone entro cui si gioca il destino del testo.

L’opera invita il personaggio a uscirne e così – sulla base delle traiettorie che lui segue dentro lo spazio-tempo del racconto – si scopre, si inventa cioè si invera: si predispone a farsi, si fa film in fieri, film in fuga. Non più personaggio in cerca d’autore, se mai in cerca di oblio, in cerca di «nulla», quel suicidio operabile solo dopo aver compiuto un’ultima «missione» imposta dal testo, che sembra però procrastinarsi sempre più in là, perché il gioco si prolunghi e l’universo di forme continui a pullulare, come nel finale di Glass in cui, mentre vibrano gli archi di West Dylan Thordson, la madre di Elijah rivendica l’esistenza del figlio, di Kevin Wendell Crumb e di David Dunn, e dice: «Io lo so cos’è questo. Questo è il momento in cui entriamo nell’universo».

COSÌ COOPER resta intrappolato nel film (deve restarvi, pur con tutte le sue storture, i suoi indotti abomini: è necessario vi resti perché si perpetui l’estetica della vita e della malattia, dentro l’eremo del visibilio), in un organismo anfibio che si autoalimenta e muta in continuazione, e che sembra una variazione sul tema di Split (a partire dai traumi infantili, dai drammi adolescenziali, dalla presenza dei mezzi di comunicazione di massa), tanto che personaggi che prima erano sullo sfondo – letteralmente, stagliati sullo sfondo del palco, in una distanza costante da Cooper e sua figlia – come la cantante Lady Raven, o addirittura non erano per nulla presenti, ad esempio la moglie di Cooper, avanzano nella complessione del film finendo in primo piano, diventando centrali, anzi centrifughi, attanti di ulteriori aperture, di nuove vie di fuga.

IL CORPO del film svela lentamente (anzi, densamente) queste sue aperture e le sue propaggini che rilasciano enzimi, lucori, sangui, in un divenire sostanza (semantica) di cui si perde il senso della durata effettiva in favore di una durata fittiva, del tempo vitale concesso al figurale, al simbolico, al segno cinematografico più denso. Nei tamburini dei giornali o in quelli luminosi esposti fuori dai cinema si legge «un’ora e quarantacinque minuti», monito implicito alla cena, alla salvaguardia dal reflusso, al sonno notturno; ma una volta entrati nel film, nella trappola del film, il tempo si dilata, s’involve, segue un andamento puramente fittizio, plastico, il tempo che ha l’organismo cinematografico di ostendersi nelle sue mutazioni, nei suoi rizomi imprevedibili. In poco meno di un’ora c’è stata talmente tanta materia in fibrillazione, talmente tanta narrazione fiammeggiante, che quando arriva l’intervallo con la sua canonica sincope di riflettori sul buio, ancora in deliquio da celluloide, mentre vedi sgomenti due o tre spettri che smicciano intorno, smunti come un urlo, spaesati mentre brancolano verso i vespasiani a scaricare le sprite, pensi che il film sia finito, ti stai quasi per alzare, e invece è appena a metà, e allora intuisci che il bello deve ancora venire.

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