Come si fa a punire un morto per i suoi misfatti veri o presunti? Facile: basta distruggerne tutte le residue tracce di vita. In una piccola iconoclastia quotidiana, lo fa chi elimina foto e ricordi per vendicarsi di un coniuge infedele (morto o vivo che sia), di uno zio che lo ha diseredato, di un amico diventato ostile. E per i grands vilains celebrati in solenni e sfacciati monumenti pubblici? Ancor più facile: basta abbattere le loro statue con clamore, e tutti capiranno che il celebrato altro non era che un pessimo tiranno o schiavista. Chi rovescia un monumento se lo fa contemporaneo, e si fa contemporaneo all’effigiato. Se ne proclama giudice inappellabile, quasi potesse modificare la storia a piacimento; e ad ogni modo si mette a posto la coscienza, come dicesse: io, se ci fossi stato allora, non avrei mai eretto quel monumento, e anzi, se mai fossi vissuto al tempo di quel personaggio, lo avrei combattuto con ogni mezzo per impedirne le nefandezze.

Rinnegare primo e secondo impero
Non tanto diversi da questi dovevano essere i pensieri di Gustave Courbet il 12 aprile 1871, quando propose e ottenne che la Comune di Parigi decretasse l’immediato abbattimento della gigantesca colonna di Place Vendôme (alta 44 metri), innalzata da Napoleone nel 1805 a imitazione della Colonna Traiana. Per i rilievi che celebrano i suoi trionfi militari venne fuso il bronzo dei cannoni strappati agli austriaci e ai russi nella battaglia di Austerlitz, e la colonna rimase al suo posto anche dopo la restaurazione della monarchia borbonica; solo la statua di Napoleone in vesti imperiali romane fu tolta dalla sommità, e sostituita dalla bandiera reale. Courbet ce l’aveva però con Napoleone III, un altro Bonaparte che nel 1870 aveva perso la guerra con la Prussia e il trono. Distruggere la colonna («priva di ogni valore artistico», disse Courbet) era rinnegare il primo e il secondo impero, condannare la brutale forza delle armi e la tirannide bonapartista. Il 16 maggio 1871, al suono della Marsigliese e davanti a 20.000 cittadini, la colonna venne abbattuta, sul basamento vuoto fu innalzata la bandiera rossa della Comune (come si vede in un’illustrazione di Auguste Lançon), e i bronzi vennero messi all’asta per farne sparire ogni traccia. Invano: pochi giorni dopo, liquidata la Comune, il governo decretò l’immediata ricostruzione del monumento, imputando l’intera spesa (323.000 franchi) a Courbet, in 33 rate annuali (l’artista, rifugiatosi in Svizzera, morì non ancora sessantenne prima di pagare la prima rata).
La Colonna Vendôme, quando fu distrutta dai comunardi, aveva però di nuovo in cima (per volontà di Napoleone III) una statua di Napoleone vestito da imperatore romano. Abbattendola, Courbet finì col trattare Napoleone I come un vero imperatore romano: mai, infatti, la distruzione mirata di statue e monumenti fu così frequente e sistematica come nella Roma imperiale. Da Augusto (il vero fondatore dell’impero) in poi, il potere di quei sovrani fu sommo e indiscusso; ma dopo la morte di ciascuno il successore si prendeva il supremo arbitrio di giudicarlo davanti al popolo e alla storia, talvolta divinizzandolo e dedicandogli templi e altari (lo aveva fatto Augusto per Cesare, lo fece Tiberio per Augusto). Altra volta, nel caso di imperatori in qualche modo impopolari come Nerone, si procedeva invece a quel che con espressione convenzionale (ma non antica) si chiama damnatio memoriae: statue e busti venivano distrutti, il nome del condannato era eraso dalle iscrizioni, le monete con la sua effigie velocemente sostituite da quelle col profilo del successore. La condanna (damnatio) era dunque il rovescio e l’identico della divinizzazione (con parola greca, apotheosis).
Ma non è tutto qui. Gli antichi romani sapevano (e lo sappiamo anche noi) che per essere efficace l’iconoclastia deve risultare ben visibile. Vediamo un esempio: in un ritratto di famiglia di Settimio Severo con la moglie e i due figli ancora bambini, il volto di uno dei due ha subito la damnatio memoriae: si tratta di Geta, che dopo la morte del padre a York (211 d.C.) regnò congiuntamente al fratello Caracalla per pochi mesi, finché Caracalla lo fece uccidere e decretò la cancellazione delle sue immagini. Ma se la memoria di Geta doveva essere eliminata, come mai è così facile per noi, e lo era ancor di più per un osservatore contemporaneo, capire che anche lui era stato dipinto con dignità e attributi pari a quelli del fratello che lo aveva ucciso? La rimozione del ritratto di Geta venne fatta solo in parte, in modo che la sua presenza restasse visibile in quanto cancellata: il personaggio mostruosamente acefalo mostra l’onta del principe che ha perso la lotta col fratello ed è stato ricacciato nel buio della storia. Il residuo dell’immagine di Geta è essenziale al processo di distruzione della sua immagine. Qui come altrove la damnatio memoriae, più che la soppressione di ogni traccia del principe caduto in disgrazia, va intesa come l’esibizione, la sottolineatura dell’atto stesso della cancellazione. I residui delle figure rimosse ostentano la traccia performativa del gesto distruttivo, con le sue pesanti implicazioni politiche; rendono chiaro che chi è stato cancellato dev’essere ricordato proprio in quanto cancellato. E non è forse vero che la distruzione dei Buddha di Bamiyan fu efficace solo perché ne sono rimaste in situ le enormi nicchie, e perché le immagini delle statue prima e durante la distruzione hanno fatto il giro del mondo?
Ogni forma di iconoclastia (anche quelle praticate dalla cancel culture) presuppone la natura intima delle immagini come agenti sociali, e perciò ha al suo centro un aspetto discorsivo: il gesto distruttivo capovolge la valenza delle immagini, si impadronisce del loro potere operativo, le condanna all’impotenza, sostituendovi la propria potenza distruttrice. Così è sempre stato, ma la vera novità della neo-iconoclastia dei nostri tempi è che la memoria residuale innescata dall’atto distruttivo è affidata non più solo a «tracce performative», bensì alla moltiplicazione mediatica delle immagini, prima durante e dopo la distruzione: la rappresentazione della demolizione prende (almeno temporaneamente) il posto del monumento distrutto. Chi lo abbatte prende il posto di chi lo aveva innalzato, anzi si pone al di sopra di loro.

Un’orgia di selfie fotografici
A Bamiyan il 12 marzo 2001 come a Manhattan l’11 settembre dello stesso anno, a generare l’azione devastatrice non fu una statua o un grattacielo, ma l’idea di inscenare lo spettacolo della distruzione. Le Twin Towers furono abbattute nella certezza che l’evento sarebbe stato ripreso sull’istante dalla televisione, e che il mondo si sarebbe fermato a guardare. A Bamiyan, a Mosul, a Palmira sono stati gli stessi distruttori a documentare se stessi, in un’orgia di selfie fotografici e cinematografici, da diffondersi poi in tutto il mondo. La neo-iconoclastia ha un carattere spiccatamente performativo: il gesto di chi distrugge è più importante dell’opera che viene distrutta. Perciò l’11 settembre ha generato una sorta di perversa estetizzazione: secondo Karlheinz Stockhausen «quel che è avvenuto lì è l’opera d’arte più grande di tutti i tempi»; e anche per il più cauto Damien Hirst «l’11 settembre è a suo modo un’opera d’arte, anche se malvagia».
Courbet non rivendicò mai l’artisticità del suo gesto distruttivo della colonna di Napoleone, ma coi tempi che corrono qualcuno forse lo farà per lui prima o poi. In ogni caso chi accusa di barbarie la cancel culture dovrebbe ricordarsi che tra i suoi più attivi paladini vi fu un grande artista come Courbet; e d’altronde chi abbatte monumenti dovrebbe ricordarsi che il suo gesto distruttivo riattiva e perpetua il ricordo di chi ne è stato vittima inerte. Il mondo è, purtroppo (o forse per fortuna), davvero assai complicato e pieno di contraddizioni. E chi crede di semplificare la storia sopprimendone qualcosa non fa che complicarla ancor di più.