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Traduttori, censori, editori all’esame di Roger Chartier

Traduttori, censori, editori all’esame di Roger Chartier

Saggi critici «Le migrazioni dei testi», Carocci

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 19 luglio 2020

Come si traduce una metafora? E soprattutto una metafora doppia ed ellittica, come quella inventata dal grande trattatista barocco spagnolo, il gesuita Baltasar Gracián: «A linces del discurso, xibias de interioridad»? La resa letterale è ridicola, e produce un leggero senso di vertigine, di assurdo: «A linci del discorso, seppie dell’interiorità». Tradurre una metafora significa sciogliere un nodo gordiano, sottoporre la lingua a una torsione impensata. La traduzione rivela così la sua forza intrinseca di sfida alla «sopravvivenza dell’originale» già intuita da Walter Benjamin: o di «migrazione» del senso, per usare una formula cara a Roger Chartier in Le migrazioni dei testi Scrivere e tradurre nel XVI e XVII secolo (Carocci, pp. 161, € 16,00): «Lo stile spezzato e laconico del gesuita presuppone la collaborazione del lettore accorto, in grado di dipanare i significati impliciti delle sei parole che formano la metafora: agli occhi di lince che tentano di penetrare il segreto del discorso bisogna occultarne l’intenzione, così come fa la seppia che si nasconde con il suo getto d’inchiostro».

Oltre a studiare i percorsi complessi di ogni «migrazione» del significato attraverso un adattamento semantico nelle lingue di accoglienza, fra il rischio di un calco esagerato e il pericolo dell’astrazione eccessiva, Chartier affronta la questione più rilevante: l’esame dei dispositivi complessi che presiedono alla «migrazione dei testi» da una cultura all’altra, in primo luogo la funzione dei traduttori, dei censori, degli editori. Per esempio, dell’Oráculo manual di Gracián ripercorre la labirintica vicenda di «curializzazione» che attraverso la versione francese (L’homme de cour) fissa «per tutta l’Europa il senso cortigiano del libro» stabilizzandolo fino alla fine del Seicento, quando infine il «cortigiano» lascia spazio all’honnête homme, e «il libro assume senso per tutti coloro la cui condizione o animo non priva del buon senso». La storia delle parole e dei loro adattamenti attraverso la metamorfosi dei libri diventa una chiave notevole per restituire la vicenda dela civiltà in un orizzonte molteplice, articolato nelle categorie emblematiche Pubblicare, Rappresentare, Tradurre, Adattare.

Chartier, che è fra i maggiori studiosi di storia del libro e delle pratiche individuali e sociali legate alle attività del leggere, dello scrivere, del tradurre, del pubblicare, mette a frutto le sue profonde conoscenze nel campo della cultura iberica fra Sei e Settecento. Grazie alla sua ricerca erudita ed elegante vediamo in uno straordinario caleidoscopio culturale Don Chisciotte «adattato» dallo spagnolo al portoghese, da romanzo a opera teatrale. Proprio lui, che nella seconda parte del Don Quijote (1615), confondendo la realtà e l’immaginazione, aveva distrutto il teatro dei títires di Mastro Pedro, nel 1733 diventa una marionetta del Teatro do Bairro Alto di Lisbona per opera del drammaturgo Antônio José da Silva, un «cristiano nuovo» che l’Inquisizione brucerà sul rogo sei anni più tardi, e di cui Chartier ricostruisce la tragica vicenda umana e politica, riconoscendo nella sua «mano torturata che non riesce più ad apporre la propria firma» la traccia di «una sofferenza individuale e condivisa», la «dolorosa condizione dei conversos, lacerati fra le loro convinzioni interiori e i sospetti costanti degli inquisitori».
Quel paradossale Don Chisciotte-marionetta è trasformato in strumento satirico per mettere in scena la parodia di una giustizia corrotta, mentre Sancio, a cui da Silva assegna «il ruolo “brechtiano” di distruggere l’illusione», continua a raccontare le sue storie madornali prendendo per il naso l’hidalgo e lo spettatore. Peccato che Chartier non conosca il teatro dei pupi di Mimmo Cuticchio a Palermo. Vi ritroverebbe proprio un Don Chisciotte «pupo», con i paladini di Carlo Magno e i Mori che lui stesso ha fatto a pezzi secoli prima nel teatrino del «puparo» Mastro Pedro: ormai carico di tradizione e di metamorfosi, è un foucaultiano migrante della rappresentazione fra i generi letterari e le visioni del mondo più diverse della storia occidentale.

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