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Tradurre! Rinascimento come mondializzazione

Tradurre! Rinascimento come mondializzazioneSir Thomas Urquhart in un’incisione di George Glover, 1641, Londra, National Portrait Gallery; lo scrittore scozzese Urquhart (1611-1660) tradusse in inglese l’opera di Rabelais

Editoria Svizzera Le conquiste geografiche, l’invenzione della stampa, le guerre di religione... Nell’Europa della prima modernità esplode il desiderio di appropriarsi dell’«altro»: da Ginevra un libro di studi

Pubblicato più di un anno faEdizione del 16 aprile 2023

Gli studi sulla traduzione sono tanto più preziosi quanto più la riflessione teorica si accompagna all’analisi di casi particolari. L’atto del tradurre appare così come una pratica intellettuale collocata in un determinato contesto e interpretabile a partire dalle forze, dalle tensioni, dalle idee che lo animano. Si muovono decisamente in questa direzione gli studi raccolti in TraduireTradurreTranslating Vie des mots et voies des œuvres dans l’Europe de la Renaissance, a cura di Jean-Louis Fournel e Ivano Paccagnella (Genève, Droz, pp. 779, € 46,35). Le lingue dell’Europa della prima modernità, fra il XV e il XVII secolo, sono in una certa misura «nuove» e tra loro si stabilisce un’interazione che è anche una gara. Tradurre è infatti appropriarsi di un’opera prodotta in un’altra cultura, catturare la lingua dell’altro – è acquisire un «bottino», come scrivono i curatori – e questo comporta spesso l’elogio della nazione a cui appartiene il traduttore. Ma tradurre, al di là della logica dell’imitazione, è anche una conquista di «libertà», nel senso che può felicemente arricchire la lingua d’arrivo.

Il volume abbraccia i campi più diversi – i contributi sono in francese, in italiano e in inglese – e in un contesto plurimo e complesso, animato sia dagli scambi commerciali che dalla rivalità tra i vari stati, segnato dalle guerre di religione, dall’invenzione della stampa, dalle conquiste geografiche, ha l’ambizione di dar conto di quella che si può chiamare una nuova «mondializzazione dei saperi». Non ci stupisce allora l’attenzione per i linguaggi specifici delle varie «arti»: l’agricoltura, ma anche la scherma, l’ittiologia, la medicina, l’astronomia. Per quest’ultima si registra la traduzione in latino, che esce a Basilea nel 1568, del trattato La sfera di Alessandro Piccolomini, il brillante commediografo della senese Accademia degli Intronati, l’esperto volgarizzatore e commentatore della Poetica di Aristotele.

Un ruolo di primo piano ha la letteratura. Il ventaglio delle opere coinvolte è notevolissimo: le traduzioni tedesche dei Trionfi di Petrarca (1581) e della Gerusalemme liberata (1626) di Tasso – dove Goffredo, nel contesto della Guerra dei Trent’anni, diventa un simbolo di unità nazionale e transconfessionale –; la traduzione inglese di Rabelais per opera di Thomas Urquhart, che utilizza con grande originalità il materiale fornitogli dal lessicografo Randle Cotgrave; la fortuna della Semaine di Du Bartas in Italia; la traduzione dell’Amadis de Gaula da parte di Herberay des Essarts (1540-1548) che, alla luce della rivalità franco-spagnola, si rivela una vera e propria conquista simbolica; la moda della novela sentimental spagnola nella Francia dell’Ancien Régime. Particolarmente raffinato è il procedere di Montaigne: quando cita traducendo integra sottilmente le citazioni all’interno del discorso degli Essais, e spesso troviamo, prive del rimando all’autore, delle «traduzioni dissimulate», offerte quasi come una sfida al lettore. Non si tratta mai d’imitazione, ma piuttosto di emulazione, perché, come scrive Jean Balsamo, più che tradurre Seneca o Cicerone, vuole «faire du Montaigne».

Due corpose sezioni sono dedicate alle traduzioni di opere della spiritualità e alle traduzioni politiche. L’esame del Dialogo de doctrina christiana (1529) dell’erasmiano Juan de Valdés mette in luce la complessità di un testo che ha una strategia traduttoria polimorfa, a seconda dei testi che cita, la Vulgata, Agostino, Lutero, Erasmo, ma che tende sempre a una chiarezza evangelica. Grande diffusione europea hanno anche le opere del riformatore protestante Bernardino Ochino, secondo due strategie molto diverse, ora la traduzione rispecchia la lingua speciale, quasi ermetica, dei suoi testi, ora, come nelle versioni francesi e spagnole, è portata a un livello più basso, più vicino al linguaggio comune. Gabriel Chappuys, che Girolamo Tiraboschi definì «il più grande traduttore-volgarizzatore della spiritualità», traduce in francese i mistici spagnoli e le opere dei più noti predicatori italiani del tempo, Cornelio Musso e Francesco Panigarola. Se alcuni studiosi hanno criticato l’ampollosità del suo stile, le ridondanze, la sua «deplorabile teoria del raddoppiamento», Elisa Gregori rivendica la funzionalità di questa «paratassi» e la forza coinvolgente della sua eloquenza sacra.

Nella sezione della traduzione politica e filosofica domina la presenza di Machiavelli, con l’Anti-Machiavel del calvinista Innocent Gentillet nella traduzione del pastore luterano Georg Nigrinus, pubblicata a Francoforte nel 1580, che è un documento importante del dibattito sulla «ragion di stato», e con la traduzione francese del discorso pronunciato da Bartolomeo Cavalcanti – un ardente repubblicano che si ispira a Machiavelli come al «suo oracolo» – davanti alle milizie fiorentine il 3 febbraio 1530, traduzione che ha un obiettivo politico ben preciso: esortare il re di Francia a non abbandonare la repubblica fiorentina in pericolo.

Ancora a un fiorentino, a Matteo Palmieri, si rivolge Claude Deroziers, che traduce la sua Vita civile (1430 ca.) più di cent’anni dopo, nel 1544, a partire dall’editio princeps del 1529. Deroziers attualizza questo trattato istituendo una specularità tra la Firenze del XV e la Francia del XVI secolo: quest’ultima è anch’essa una «repubblica», cioè un’organizzazione politica retta dalle leggi. Il fluviale Paolo Giovio, che seppe cavalcare con sensibilità culturale e abilità commerciale il sempre più diffuso interesse per i libri di storia, ebbe una straordinaria circolazione europea. Il suo Commentario de le cose de Turchi, pubblicato in italiano a Roma nel 1532, fu tradotto in latino e uscì a Strasburgo nel 1537, poi ci fu una traduzione francese nel 1538, e una inglese nel 1546.

Questa bipolarità italiano-latino, che caratterizza la prima diffusione delle opere di Giovio, si ritrova, sistematicamente messa in atto, in Tommaso Campanella. Qui, con molta attenzione alla qualità comunicativa dell’espressione linguistica, il Calabrese traduce in latino diversi suoi testi, che aveva redatto in modo più corsivo in italiano, per raggiungere un pubblico più vasto. Chi rimproverò il suo «cattivo latino» non colse la sua radicale opzione per un linguaggio non retorico, dove le parole, come scrive Jean-Louis Fournel, grazie a una «grammatica filosofica», non vengono dagli «autori», ma dalle cose stesse.
L’ultima sezione, dedicata alla traduzione dei viaggi, allarga grandemente l’orizzonte, all’Oriente – con il Devotissimo viaggio di Gerusalemme di Jean Zulliart, prima in italiano (1587) e poi in francese (1608) – e al Nuovo Mondo, con le traduzioni delle Crónicas de Indias e del libro di Marco Polo. Domina la scena, per la rilevanza della ricezione, Delle navigazioni et viaggi del grande geografo e narratore Giovan Battista Ramusio.

Si può davvero parlare, e le varie sezioni del libro ne danno copiosa e avvincente dimostrazione, della costruzione di una cultura europea. In molte grandi città – Venezia, Parigi, Lione sono in primo piano – gli editori si specializzano nella stampa delle traduzioni, diffondendo trasversalmente opere nelle più diverse lingue a uso delle élites intellettuali e politiche. Le pretese egemoniche avanzate da una singola lingua, che pure non mancano, si rivelano obsolete in un così dinamico e pluralistico «sistema delle lingue», dove sia chi traduce sia chi legge si muove in una dimensione in cui le lingue sono due, e anche più di due.

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