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Tradimento degli oggetti, dalle tirannie ai manager

Tradimento degli oggetti, dalle tirannie ai managerIl Newseum di Washington (museo interattivo dell’informazione e del giornalismo), aperto nel 2008 e chiuso definitivamente nel 2019

Giovanni Pinna, "Divagazioni sulla storia politica dei musei", 1500 pagine online La ricca e argomentata casistica di un veterano museologo, dalle origini fino alla "cancel culture" e ai musei che muoiono nell'indifferenza

Pubblicato circa un anno faEdizione del 24 settembre 2023

Che i musei non siano atolli avulsi dalla realtà che li circonda, monadi déracinés dal contesto sociale e politico che li ha prodotti, ma che, al contrario essi siano, oltre che, naturalmente, custodi del passato, sensibili sismografi del presente, è dato acquisito. Che i musei, istituzioni apparentemente inerti e statiche, siano in perpetuo cambiamento, particolari indicatori del mutare dei significati di cui culture diverse caricano oggetti come patrimonio intangibile, è fatto assodato. Anzi, da Occidente a Oriente, il dispositivo museale è al centro di negoziati che coinvolgono gli usi politici del patrimonio, sia che di questo si siano appropriati i governi locali, sia comunità minoritarie, sia, perfino, gruppi o singoli individui che lo contestano. Perché i musei non sono luoghi neutrali: anzi sono efficaci strumenti politici, la cui trasmissione del sapere è sempre arbitraria e mai imparziale. Perché se a scrivere la storia, come si dice, sono quasi sempre i vincitori, a fondare e dirigere i musei sono quasi sempre i gruppi dominanti che li utilizzano per manipolare le rispettive società.
Queste appassionanti tematiche sono al centro delle Divagazioni sulla storia politica dei musei di Giovanni Pinna, edito on line lungo l’ultimo quinquennio come supplemento di «Nuova Museologia», testata di cui il museologo e paleontologo, a lungo direttore del Museo di Storia Naturale di Milano, è a capo. Pinna è fra l’altro autore (con Lanfranco Binni) del primo fortunato manuale italiano di museologia che Garzanti pubblicò nel 1989 e sul quale si formarono intere generazioni di operatori culturali. Risale ad allora, ai tanti progetti internazionali condotti, sul campo, in prima persona, nonché ai vari incarichi che Pinna ha ricoperto per ICOM di cui, dal 1997 al 2003, è stato presidente del commitee italiano, la genesi di quest’opera che, scandita in nove capitoli, si compone di quasi millecinquecento pagine.
Dato a lungo per obsoleto o, quantomeno, auspicabilmente morente – brûler le Louvre, espressione della borghesia, era uno dei motti del Sessantotto francese –, il museo permane dunque una potente arena per la rappresentazione utopica delle rispettive identità. A lungo in Europa queste narrazioni si sono adagiate sull’antica, e per certi aspetti oggi desueta, triade nazione-patrimonio-museo. Come il Louvre che nasce da una serie di decreti emanati negli anni 1793-’95, per la Francia, cruciali (poi lo stesso Musée Napoleon), ma anche il British Museum, voluto dal Parlamento inglese nel 1753.
Al loro interno gli oggetti, come scrive Pinna nell’introduzione, «contribuiscono alla creazione della memoria culturale, alla cultura di una comunità». Ma chi sceglie quali oggetti esporre e quali no? Quali sono i criteri con cui essi vengono esposti? «Chi controlla il passato (…) controlla il futuro: chi controlla il presente, controlla il passato», scrive George Orwell in 1984, uno dei tanti begli eserghi posti in apertura dei paragrafi delle Divagazioni. Jules Michelet afferma di aver ricevuto «l’impressione viva della storia» che lo condurrà a scrivere la celebre Histoire de France passeggiando nelle sale del museo allestito nel convento parigino dei Petits-Augustins. Il museo come libro aperto sulla storia (ma anche sulla natura, etc.) è un adagio che accompagna, anche negli atti fondativi, tante di queste istituzioni. E come i libri, anche i musei sono perciò luoghi dove la storia, talvolta, si censura. Al momento della sua ideazione, negli anni settanta del secolo scorso, per non affrontare le atrocità perpetrate anche dai nipponici durante il secondo conflitto mondiale, il Museo Nazionale di Storia Giapponese (Rekihaku) si arrestava alla sala degli anni trenta. In alcuni musei della provincia la guerra e le colonizzazioni di Corea, Taiwan e Manciuria del primo Novecento sono ancora spiegate come inevitabili e giustificabili.
L’elenco dell’uso politico dei musei, del tradimento interpretativo perpetrato sugli oggetti esposti, tra saccheggi, cancel culture e restituzioni, è trasversale. Sono ben note le strategie espositive dei regimi dittatoriali del Novecento: dalla mostra Italian Art a Londra nel 1930, voluta da Ugo Ojetti e Mussolini, all’uso della propaganda nei musei tedeschi durante il nazismo o in quelli piegati al servizio del Partito nell’Unione Sovietica. «Solo le tirannie comprendono il potere dell’arte» (Ronald Harwood, Taking Sides), è l’incipit di un ricco capitolo su Musei e totalitarismi. Caso emblematico fu quello del Museo Nazionale Etnografico di Sofia che, quando il regime comunista prese il potere in Bulgaria, venne privato della sua autonomia in funzione dei progetti di ingegneria sociale allora auspicati. Un altro capitolo indaga Musei e nazionalismo in Egitto e Medio Oriente mettendo in luce gli attuali processi di riappropriazione (comprese le richieste di restituzione), anche da parte delle politiche autoritarie presenti in queste aree a lungo dominate da campagne europee.
Altrettanto suggestive le pagine dedicate all’origine dei musei nel Nord America, in cui gli argomenti più spinosi, tra cui colonialismo e tratta degli schiavi, sono rimasti a lungo fuori dalla narrazione corrente, dalle sale dei musei. Un capitolo, questo, che spiega una volta per tutte come anche il modello gestionale e manageriale, quello stesso che a torto si tenta vacuamente di replicare in Italia, sia fin dalle origini fallimentare. Si vedano il naufragare dei dime museums, più simili a luna park che a musei, in cui, per quattro spiccioli appunto, anche le classi sociali meno abbienti potevano trovare intrattenimento, o l’insuccesso del progetto di Charles Willson Peale che nel lontano 1786 (anticipando perfino i citati decreti istitutivi del Louvre) apre il Philadelphia Museum, presto chiuso proprio a causa del tracollo della sua presunta auto-sostenibilità economica.
In questo contesto uno dei tanti meriti del ponderoso testo di Giovanni Pinna è quello di squarciare il velo su uno dei tabù che accompagnano la storia dei musei, in cui a fare notizia sono le inaugurazioni, i tagli dei nastri, mentre mai o quasi mai si parla di musei che muoiono. Icom ha calcolato che le forzate chiusure al pubblico durante l’emergenza sanitaria hanno condannato almeno un museo su dieci a non riaprire più. Ma la situazione era già drammatica prima della pandemia. Anche accantonando la tragica situazione di abbandono in cui versano tanti musei locali italiani, privati delle figure professionali basilari, sviliti a depositi aperti su appuntamento, anche il panorama internazionale non è confortante. Pinna racconta l’emblematica fine, prematura si potrebbe dire visto che aprì solo nel 2019, del Newseum di Washington. Sì, proprio un Museo della Notizia, che nella sua breve vita raccontava, attraverso pagine di giornali, video, fotografie e oggetti come la cronaca si faccia storia: frammenti del muro di Berlino, un’installazione ricavata dai resti di un’antenna del World Trade Center dopo il 2001, ma anche la penna con cui Gorbaciov firmò il passaggio alla Russia del controllo dell’arsenale nucleare dell’ex Unione Sovietica, la porta del Watergate, etc.
Newseum era anche un memoriale in ricordo dei giornalisti caduti in pace e in guerra. «Era ricordato anche l’italiano Peppino Impastato ucciso dalla mafia nel 1978», rammenta Pinna. Un grande pannello, infine, descriveva la situazione planetaria della libertà di stampa e di espressione. Anch’esso, chiuso il museo, è finito in un deposito nel Maryland. D’altronde l’ipermnesia a cui sembra condannato l’Occidente in cui tutto andrebbe congelato è la faccia della stessa medaglia che considera l’oblio e perfino l’iconoclastia un atto creativo, forse capace di generare nuove identità, certamente assenze; come le nicchie della valle di Bamiyan private delle statue dei Buddha. Vuoti parlanti. Di cui sembra di udirne ancora le grida.

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