Tracy Chapman, i Grammy e noi
Tracy Chapman sul palco durante la cerimonia di premiazione dei Grammy Awards 2024 – foto Ap
Visioni

Tracy Chapman, i Grammy e noi

Musica «Fast Car» si prende la scena 35 anni dopo, una canzone durissima nel sottoporre il mito americano a una critica spietata di classe e di genere, tra complotti e spirito del tempo
Pubblicato 10 mesi faEdizione del 6 febbraio 2024

Se avete cinque minuti riguardatevi Tracy Chapman l’altra sera alla cerimonia dei Grammy a Los Angeles, che è un po’ il festival di Sanremo americano. Sta su tutti i social, Fast Car. Ieri mattina ci siamo cascati in tanti, sembrava di scambiarsi una di quelle vecchie audiocassette scampate a ogni apocalisse tecnologica che il protagonista del film di Wim Wenders Perfect Days suona sul furgoncino mentre la vita gli scorre via. You’ve got a fast car: «Hai una macchina veloce/ voglio un biglietto per andare ovunque/ mettiamoci d’accordo/ e andiamoci insieme». Con la stessa precisa voce di allora, i capelli ingrigiti. Come i nostri. Chi ci ha lasciato sopra un lacrima non ha proprio niente di cui vergognarsi.

DA QUANTI ANNI non si rivedeva? Una decina. Riservata, schiva, pochissime interviste, Tracy Chapman è stata un’icona planetaria ai tempi dei concerti rock di beneficenza, non fa dischi dal 2009.

In una delle ultime puntate del Letterman Show aveva cantato Stand by me di Ben E. King con il rispetto che si deve a un pezzo di storia, la capacità di trasformare ogni canzone d’amore in un affare che riguarda tutta una comunità e viceversa: «Ogni volta che avrai paura/ stammi vicino». Questo ci insegna da sempre la cultura afroamericana, dal gospel di Mahalia Jackson ai blues di Bessie Smith e Ma Rainey, passando per le traduzioni di Dylan e Springsteen. Nella storia di ciascuno, la storia di tutti.

Trentacinque anni fa Fast Car ci arrivò dal niente. Dopo un po’ la sapevamo tutti, chi sentiva soltanto Guccini e chi già si stonava con la techno ai rave. La voce di Tracy Chapman aveva la tenerezza e la determinazione della protagonista, cresciuta con una mamma sola e il papà alcolizzato, quasi niente scuola, che lavora in un minimarket per fare qualche soldo e andarsene in città col suo ragazzo a «scoprire cosa significa vivere». Che siano un ragazzo e una ragazza i versi non lo dicono, la grammatica inglese aiuta.

La canzone è poi diventata un inno del movimento lgbt+, specie dopo che la scrittrice Alice Walker ha svelato con innocenza un lungo rapporto d’amore con la cantautrice di Cleveland. Funzionano così tutte le canzoni in cui esiste un luogo dove si può «avere la sensazione di essere qualcuno (…) le luci della città, il braccio attorno alle mie spalle», Gloria Gaynor, i Pet Shop Boys, così.

Fast Car è una canzone tenera e severa, come scopri a poco a poco dal tono della voce che la canta, per come racconta meravigliosamente di un sogno infranto. Durissima nel sottoporre il mito più americano di tutti, l’amore, la fuga, la rinascita, il rock’n’roll, a una critica spietata di classe e di genere, senza usare nessun’altra argomentazione.

Una strofa dopo l’altra la stessa macchina veloce diventa un relitto, la carcassa di un sogno. «Hai una macchina veloce/ e io ho un lavoro che ci mantiene/ fai tardi la sera al bar/ vedi più i tuoi amici che i tuoi figli». Un po’ come The River, la canzone di Springsteen in cui il protagonista vede morire i suoi sogni nello stesso fiume dove sono nati. Però dal punto di vista opposto.

In un cerchio sempre più stretto, la protagonista rivive la vita che è stata di sua madre prima di lei e con tutte le forze ha cercato di fuggire. Ma da soli non si può fuggire, anche chi ce la fa.

Tracy Chapman e Luke Combs ai Grammy 2024 per Fast Car, foto Ap

PERCHÉ 35 anni dopo parliamo ancora di Fast Car? Perché lo scorso anno il cantautore country Luke Combs ne ha fatto una versione che ha fatto il botto sulle radio specializzate fino a diventare virale pure su TikTok.

Sappiamo sempre troppo poco del mondo di Nashville, dove si rappresenta da sempre l’America bianca, profonda e a volte molto poco rassicurante. Combs, trentatreenne che l’altra sera si è presentato sul palco cantando assieme a Tracy Chapman, dice che è la prima canzone che ricorda sull’autoradio di papà. Dovrebbe essere così anche per Taylor Swift, la regina del pop superpremiata l’altra sera, inquadrata tra il pubblico dei Grammy mentre cantava commossa Fast Car.

Sia Combs che Taylor Swift si dichiarano democratici, e la cosa non è neanche da buttar via. Combs è riuscito a portare per la prima volta una donna nera lesbica e femminista nel santuario del country americano. Taylor Swift, come si sa, è ufficialmente tra i bersagli dei trumpiani che la considerano un’arma segreta del Grande Complotto pedoplutodemo eccetera.

Trentacinque anni fa il mondo era più o meno impazzito? Nell’anno del rovesciamento di genere per alcuni grandi miti popolari, la Barbie di Greta Gerwig – la canzone di Billy Eilish per i giurati del Grammy è la più bella dell’anno – o Bella Baxter, la Frankenstein libertina e spinoziana di Yorgos Lanthimos in Povere Creature, anche Fast Car sembra partecipare della stessa meritevole opera.

In più tutte le grandi canzoni sono capaci di fermare il tempo e lenire il dolore: la macchina veloce di Chapman è sempre pronta a partire di nuovo, con la stessa certezza che domani potrebbe andare meglio, things will get better.

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