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Tra Spoleto e Menotti due e più Mondi

Tra Spoleto e Menotti due e più Mondi

Improvvisi L'«utopia concreta» che ha fatto del Festival dei Due Mondi l’opera sicuramente più radicale, longeva, sperimentale e visionaria tra quelle che Giancarlo Menotti ha realizzato

Pubblicato più di un anno faEdizione del 4 giugno 2023

Ci sono cinque uomini, in piedi, in posa davanti al fotografo, sullo sfondo di una città notturna. Portano soprabiti leggeri e sorridono. Tra loro si riconoscono soltanto due volti: quello di Giancarlo Menotti, cravatta e cappotto scuro, e quello di Adriano Belli, il fondatore del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto. La didascalia recita, senza dire una parola di più: «Prima visita di Menotti a Spoleto, maggio 1956».

È la prima testimonianza visiva, conservata con tutti gli onori nel Museo di Casa Menotti, di una delle avventure più longeve e ancora oggi vitali, della vita musicale italiana: il Festival dei Due Mondi. Passeranno altri due anni prima che la creatura inizi a camminare con le proprie gambe: il sipario immaginario della manifestazione si apre infatti il 5 giugno del 1958, ossia esattamente sessantacinque anni fa. Ma una gestazione così lunga, segnata da dubbi, esitazioni, incertezze, è la dimostrazione del carattere non convenzionale, anzi innovativo e radicale, del «Festival of Two Worlds».

Menotti comincia a coltivare il progetto del «suo» festival già nel 1955, al centro cioè di un decennio molto fertile per la sua attività compositiva: nel 1950 Il Console a Filadelfia e alla Scala di Milano, nel 1951 Amahl and The Night Visitors, commissionata dalla NBC, la prima opera televisiva andata in onda negli Stati Uniti; nello stesso anno la versione cinematografica de La Medium, che viene presentata sia a Cannes che a Venezia; nel 1954 La Santa di Bleecker Street alla New York City Opera.

Tutte opere dichiaratamente e consapevolmente «inattuali», lontanissime dalle tensioni stilistiche che stavano cambiando il volto della musica colta europea. Assai più vicine, al contrario, agli standard teatrali e televisivi dello showbiz statunitense. E allora che cosa cerca in Italia Menotti, il suo paese, nel quale è molto meno conosciuto, pagato e ammirato rispetto agli Stati Uniti? Cerca un antidoto, un rimedio, una medicina contro un sistema del quale era diventato complice e parte organica, ma che sente stretto e soffocante. E allora inizia a sognare un’opera diversa da tutte le altre, una «iperopera» fatta di tante opere diverse, insomma un festival che rispondesse a logiche rovesciate e capovolte rispetto a quelle del Nuovo Mondo.

Come rivela un’intervista rilasciata all’Arena di Verona nell’agosto del 1956, il «Maestro» visita decine di città, piccole e medie, evita i grandi centri, «si rende conto della decadenza del nostro teatro di provincia, vede con dolore i gioielli dell’architettura teatrale italiana andare in rovina». E alla fine, seguendo l’utopia di coniugare gli ideali delle antiche corti italiane con le arti contemporanee, mette gli occhi su Spoleto. «La città – scrive nelle pagine del primo annuario del festival – non offre luoghi di divertimento notturni, né spiagge alla moda, né casinò di lusso. Solo coloro che sono realmente interessati alle arti potranno trovarsi bene da noi. Per questi visitatori e per i giovani artisti che parteciperanno al festival speriamo che Spoleto possa diventare con il tempo una «città ideale».

Il richiamo alla Città del Sole di Campanella e alla utopia rinascimentale della urbs electa, è sostenuto e condiviso da un intellettuale politicamente assai distante da lui come Alberto Moravia che nelle stesse pagine scrive: «Questa iniziativa di Menotti rientra in una tradizione europea antica (…) che chiamerei: nostalgia delle corti». Una nostalgia trasformata in una invenzione che oggi suona scontata e persino fastidiosa, ma che allora era del tutto sconosciuta: quella della «multimedialità». Sin dalla prima edizione il festival si regge infatti su cinque pietre angolari che resistono ancora oggi: l’opera, il teatro, la danza, le arti visive, il cinema. Intrecciati e in dialogo costante tra loro. Una «utopia concreta», che ha fatto del Festival dei Due Mondi l’opera sicuramente più radicale, longeva, sperimentale e visionaria tra quelle che Giancarlo Menotti ha realizzato.

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