Visioni

Tra realtà, fede e illusione nello sguardo di Eduardo

Tra realtà, fede e illusione nello sguardo di Eduardo«La grande magia» – foto di Flavia Tartaglia

A teatro In scena «La grande magia» del grande drammaturgo partenopeo per la regia di Gabriele Russo

Pubblicato circa 5 ore faEdizione del 16 novembre 2024

Si potrebbe quasi sentire l’ombra di Thomas Bernhard aleggiare su La grande magia messa in scena da Gabriele Russo su un palco coperto da foglie autunnali. Voglio dire per noi, che venendo dopo possiamo permetterci il lusso di proiettare nel futuro anteriore la commedia di Eduardo De Filippo. La stessa comicità sorniona, il velo spesso di umor nero condito da piccole gag, persino quella fama di uomo scontroso, dal carattere spinoso e sfuggente ad accomunarlo allo scrittore austriaco. Ma soprattutto a far convergere due percorsi artistici per il resto lontanissimi sembra qui l’interesse, direi quasi l’attrazione per la figura dell’artista della scena, colto nel suo rango più basso. Vecchi attori che si portano dietro la valigia dei ricordi, grandezza e miseria, artisti di circo o di varietà, tutti tesi alla ricerca di una perfezione inattingibile alla prova della mediocrità.

LA COMMEDIA non era piaciuta molto quando aveva debuttato a Trieste, ottobre 1948 – e bisogna fare attenzione anche alle date, era ancora fresco il ricordo di «quel diciotto aprile» che già era diventato canzone. Pirandello, Pirandello, dicevano molti di quel testo strampalato. Ma ormai poco interessa, il suo presunto pirandellismo. Quando una quindicina d’anni dopo Eduardo ne prepara una versione televisiva, il mondo è cambiato. Anche a teatro, il suo teatro. Quella piccola borghesia che aveva preso di mira con i suoi vizi e virtù sta lentamente sfumando sullo sfondo. Non per caso Eduardo decide in quel momento di interpretare Otto Marvuglia, quasi una crasi di meraviglia e garbuglio, la melanconica figura del mago illusionista che sopravvive malamente con i suoi trucchi da quattro soldi, costretto a fingere un prestigio che non ha. Dai teatri è stato espulso, non lo vuole più nessuno, lui si adatta a qualche serata negli alberghi o alle feste, insieme al suo litigioso clan familiare.

ERA PASSATO un ventennio, nel ’48, dal giovanile Sik Sik l’artefice magico, piccolo capolavoro che rivelava il teatro del grande attore e autore napoletano allo stato nascente, per così dire. Chi ha visto Carlo Cecchi, divertentissimo, tragicamente comico, sa di cosa si parla. Sik-Sik muove dalla farsa napoletana per mettere in luce la malinconia del mondo dell’arte che il giovane Eduardo coglie al suo livello più basso, appunto. Qui al contrario, ne La grande magia, tolto di mezzo il pirandellismo della situazione, a prevalere da un punto di vista drammaturgico è soprattutto l’innesto eversivo della farsa all’interno del dramma borghese. E non è solo il fatto che dietro la commedia si nasconda la tragedia, è che quel povero mondo di finzione un poco può commuoverci. E oggi? È la voce di Eduardo a introdurre lo spettacolo, a un momentaneo spegnersi della luce sull’astratta scena di Roberto Crea, priva di una qualsiasi connotazione spaziotemporale. Pareti di un grigiore uniforme, sul fondo un basso praticabile contornato da vasi di piante grasse. Una luce acquosa dalla tonalità verdognola che sembra immergere la vicenda all’interno di un acquario e una musica lounge che accompagna la comparsa del gruppo dei villeggianti. Attendono immobili l’arrivo dell’illusionista a fare il suo spettacolino.

UNA BORGHESIA dall’eleganza volgarotta, viene da pensare. Molta pelle intravista fra scollature, spacchi e trasparenze. Quasi a marcare subito una già originaria diversità del deuteragonista, chiamiamolo così la vittima del gioco prodigioso dell’illusione che ha fatto scomparire dentro una scatola magica la moglie scappata a Venezia con l’amante – è Natalino Balasso, la sua presenza prende campo un poco alla volta fino a rovesciare i ruoli nel finale. Se ne stanno seduti su una panchetta da giardino, i coniugi Di Spelta. Lui chiuso in un torvo malumore; lei visibilmente più giovane, ha un caschetto di capelli corti alla Louise Brooks forse a suggerire una sfrenata sessualità che si manifesta in un improvviso orgasmo di spasmi e sospiri.
La regia di Gabriele Russo si sottrae però al ricatto della tradizione, mette un melting pot di accenti regionali, dal siciliano al lombardo, accanto al basso continuo della lingua napoletana. E Michele Di Mauro sfugge alla tentazione di rifare Eduardo e a sorpresa fa un mago Marvuglia identico al personaggio che interpreta nella serie televisiva del Bar Lume. Trasformando in comicità immediata tutto quel che consentono le astruse teorie del personaggio, i tormentoni sul terzo occhio del pensiero, la metafora ossessiva dell’uccellino in gabbia. Spettacolo di consumo, questa esibita comicità, ma nel senso più alto di una misurata consonanza con il proprio pubblico. È un’ovazione infatti allo Storchi, dove è in scena fino a domani, dopo il debutto a Napoli, teatro Bellini. È che il confine fra follia e finzione è diventato assai sottile. L’apparenza inganna, per dirla ancora con Thomas Bernhard.

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