Cultura

Tra pura tentazione e ripugnanza

Tra pura tentazione e ripugnanzaJim Dine, Pinocchio, 2006

Metamorfosi / 5 L’eterno conflitto narrativo che racconta l’ambigua animalità dei Sapiens. Lo strano caso di una Circe magnanima e di quei greci, trasformati in bestie, che rifiutarono le sembianze umane. Fra gli insetti esiste un fenomeno della mutazione che viene chiamato neotenia, ossia la tendenza a conservare o riprendere i caratteri giovanili. Pinocchio è costretto a fingere di essere un cane da guardia, per insipienza si trasforma in un ciuco, torna burattino e si sveglia bambino in carne e ossa

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 18 agosto 2024

Nel 1548 l’Accademico fiorentino Giovan Battista Gelli, di professione ciabattino e lettore ufficiale di Dante nella Firenze di Cosimo de’ Medici, dava alle stampe un curioso e satirico libretto composto di dialoghi impossibili intitolato La Circe. L’autore immagina che la diva Circe permetta a Ulisse, che sta per lasciarla, di portare con sé quanti più greci lei nel tempo ha trasformato in bestie, ben disposta a farli tornare umani, a una sola condizione: che loro diano l’assenso. Per un breve intervallo riavranno la ragione e il linguaggio, avranno memoria di ciò che sono e furono, potranno valutare ed esporre le loro vite, avere la possibilità di un nuovo inizio e decidere infine se accettare un’inversione della metamorfosi bestiale e rifarsi umani.

NON SONO I COMPAGNI di Ulisse che Circe aveva tempo prima trasformato in porci, ma greci d’altri mestieri e professioni, con competenze e segreti, ciascuno con una propria idea della natura umana e del suo destino. Per dieci volte Ulisse offre questa opportunità, che viene puntualmente rifiutata con argomenti serratissimi, prima da vongola e talpa poi da serpe, lepre, capra, cerva, leone, cavallo, cane, vitello. Solo elefante, infine, accetta, perché essendo stato filosofo sa che l’animale umano può compiere volontariamente quel salto formidabile di abbandonare la ragione e abbandonarsi all’irrazionalità, rinunciare alla parzialità del sapere per l’infinità dell’ignoranza.
Per dare corpo alla sua finzione paradossale (sempre che leggesse la traduzione latina in prosa fatta da Raffaele Maffei intorno al 1510), Gelli faceva finta di non sapere che nel racconto omerico gli uomini trasformati in bestie, al tocco della verga, venivano «subito dotati di testa, voce, corpo, e peli di porco, ma conservavano intatta la mente»: prigionieri consapevoli di un corpo bestiale. Gelli usa avaramente il termine metamorfosi, preferendogli il verbo tramutare (per altro Dolce aveva intitolato Le trasformazioni la traduzione del capolavoro di Ovidio) e non solo perché (lo ammette lui stesso) non conoscesse il greco.

Perciò non sorprende che in una lezione dantesca dedicata al XXV canto dell’Inferno, quello in cui i dannati passano costantemente dalla forma umana a quella di rettile, specifica che ci sono due tipi di «metamorfosi o trasmutazioni». Quella che riguarda solo l’aspetto (superficiale, dice) in cui per un periodo breve o definitivo si vede il cambiamento ma se ne ignorano le cause – questa è la metamorfosi di cui scrivono i poeti (antichi), che sono affascinati solo dall’effetto. Poi c’è quella che implica la trasmutazione più radicale, in cui nel nuovo corpo e nella nuova mente non c’è proprio più una briciola di quello precedente: e questa è la metamorfosi di Dante, che usa l’immagine che muta per dire del cambiamento (simbolico) profondo, dato che l’unica cosa vera che gli interessa è la natura del soggetto mutante, la sua destinazione spirituale.

Così anche lui, riscrivendo le condizioni del racconto, cambiava e rendeva Ulisse testimone di una metamorfosi vera e profonda ma tragicomica: cioè che, tutto sommato, avendo provate la semplicità e l’innocenza animale e comparatala con gli affanni e le miserie della vita umana, rinunciare alla propria identità non fosse da stolti.
Di questa bella invenzione non colpisce soltanto il conflitto tra animalità umana e bestiale, ch’è il principale obbiettivo del dispositivo narrativo, bensì anche un suo aspetto più specifico: l’accettazione della metamorfosi da parte delle neo-bestie e il rifiuto netto degli ex-umani di riprendere l’identità originaria. Se Gelli l’ha rappresentato come una scandalosa negazione che si oppone al deluso stupore di Ulisse (e se ancora oggi pare una favola buffa e paradossale), non si deve forse al fatto che per gli umani la metamorfosi in sé è fascinosa ma anche ripugnante?

ANCHE IN AMBITO scientifico ci si domanda qual sia il ruolo della metamorfosi nell’evoluzione della specie. Nel mondo animale la metamorfosi è cosa di insetti e anfibi, e marginalmente di pochissimi pesci. I singoli organismi si sviluppano attraverso fasi in cui le caratteristiche morfologiche e l’intero complesso cellulare cambiano completamente. Mentre tra rettili, uccelli e mammiferi lo sviluppo riguarda un corpo che pur mutando moltissimo nel tempo preserva durature caratteristiche identitarie. Secondo alcuni scienziati, il fatto che a un certo punto alcuni animali abbiano cominciato a isolare dentro un guscio protettivo la crescita del feto, ricreandogli una specie di micro ambiente, e il fatto che altri abbiamo poi accolto l’embrione all’interno del corpo, furono passi molto importanti nell’evoluzione.
Nascita, crescita, sviluppo diventarono fasi di un unico processo riguardante un individuo singolo: ciò ebbe alcuni importanti effetti, tra cui l’aumento della longevità e il prevalere della vita adulta sulle altre fasi.

VA RICORDATO che in genere gli insetti dopo la metamorfosi hanno vita breve rispetto a quella larvale. Qualche volta anche tra gli insetti la metamorfosi dallo stato larvale a quello maturo non avviene o avviene parzialmente o addirittura in modo regressivo: questo fenomeno viene chiamato neotenia, ovvero la tendenza a conservare o riprendere i caratteri giovanili.
C’è chi ritiene utile adoperare questo concetto anche a proposito di classi animali che non fanno metamorfosi, in quanto criterio attivo nei meccanismi di selezione naturale. Per esempio, tra gli Hominidi, una famiglia che raccoglie molte creature antropomorfe tra cui gorilla, scimpanzé e bonobo, la nostra specie, l’unica sopravvissuta del genere Homo, sarebbe quella che la espresse con forza nella conformazione del cranio, che invece di allungarsi come avviene in quei parenti stretti, conservò quella fetale: ciò permise la postura eretta prevalente e la liberazione delle mani (con le conseguenze che sappiamo). Conservare caratteri della fanciullezza non significa rimanere giovani o giovanili, quanto piuttosto disarmare evolutivamente (cioè per selezione naturale) la tendenza a specializzare le varianti funzionali di certi organi. L’Homo sapiens sarebbe quindi il vertice evolutivo di una de-specializzazione o meglio di un ritardo. Secondo alcuni, proprio in questo rallentamento del tempo nasce la cultura, che altro non sarebbe se non una modalità di controllo ambientale, che da un lato sopperisce a certe carenze fisiche dall’altra specializza a sua volta l’evoluzione umana. Se dunque l’umano, in alcune sue caratteristiche, è un effetto della neotenia, la sua posizione rispetto alla metamorfosi è divergente, quasi come inconsapevole reazione palingenetica, cioè come rifiuto di un fenomeno avulso dal nostro istinto selettivo. Tanto per dirlo con una battuta, non ci sposeremmo con una zanzara.

LA CIRCOSTANZA di vedere nella metamorfosi una situazione che in fin dei conti contraddice l’identità individuale è stata una fonte inesauribile di finzioni. Per esempio, si presenta in maniera scherzosamente radicale nella figura/destino di Pinocchio, che nato burattino combatte in modo buffo e goffo per non perdere la sua origine e diventare una ragazzino qualunque. Grande metafora del trauma di diventare adulti (tanto che in psicologia il termine neotenia viene usato proprio per segnalare i residui di infantilismo nello sviluppo del carattere), come se il processo della crescita e il raggiungimento dell’età adulta comportasse una mutazione integrale di ogni fibra. Le difficoltà di optare per l’assestamento definitivo e la tentazione delle altre opportunità (sempre metaforiche) di optare per un qualche tipo di metamorfosi (anche sbagliate), sono continuamente messe in gioco dal burattinaio Collodi: Pinocchio, respinto dal suo luogo naturale (il teatro dei burattini) per troppa umanità, è costretto a fingere di essere un cane da guardia, quindi per insipienza si trasforma in un ciuco, torna burattino un attimo prima di affogare e infine, dopo essere rinato nel ventre dello squalo, si sveglia bambino in carne ed ossa.
Il suo modello e guida, del resto, non è da meno: la Fata si presenta come bambina morta, poi come donna giovane e bella, come donna matura, materna e prudente, addirittura come capra su uno scoglio in mezzo al mare. Metamorfosi necessarie ancorché dolorose? Spettri della metamorfosi che nelle vicende di Pinocchio sostituiscono la sua impossibilità di conservare o sviluppare l’esperienza? A un Pinocchio che non sa ragionare faccia d’esempio la metamorfosi! Da qui anche quella diffusa sensazione di risoluzione amara quando finalmente Pinocchio trova la sua forma, da tutti indicata e a volte pretesa, ma da lui sempre imitata con ritrosia e accettata con riluttanza, infine arrivata di soppiatto, come in un momento di distrazione.

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