Tra politica e ritmo, la lingua che si fa corpo
Danza Un mese di spettacoli, mostre, incontri, dedicato alla coreografa francese dal Reggio Parma Festival
Danza Un mese di spettacoli, mostre, incontri, dedicato alla coreografa francese dal Reggio Parma Festival
Politica ritmo parola. Sono i termini che nel tempo hanno fissato i confini entro i quali si muove il teatro di Maguy Marin in fuga dalla danza. Le sue linee guida o il suo campo d’azione, si potrebbe dire altrimenti. Era una ragazza dal viso senza spigoli e un sorriso un po’ ironico, trent’anni appena compiuti e un gusto molto colorato per una trasgressione più disinvolta che provocatoria, quando aveva stupito tutti e fatto innamorare molti con quel May B che la impose all’attenzione di un pubblico più vasto e diverso da quello tradizionale della danza. Lo si voleva ispirato al teatro di Samuel Beckett ma richiamava piuttosto un universo di fantasmi da Classe morta alla Kantor. Una decina di cadaveriche figure imbiancate, morti viventi tratti fuori dalla memoria, come in quell’altra memorabile creazione di pochi anni precedente, si muovevano ondeggiando per la scena. Seguendo un ritmo comune ma conservando ciascuno una propria individualità, anche fisica oltre che gestuale. Una moltitudine di singolarità che forse aveva qualcosa a che fare con l’esplodere del postmoderno in quegli anni.
LA SEQUENZA iniziale dello spettacolo, quel gruppo che avanzava tremante e ansimante, strisciando i piedi sul palco, per poi prendere faticosamente un’effimera vita, resta uno dei pezzi di teatro a cui siamo più affezionati. Sicché in quei lontani anni ottanta del secolo scorso e anche dopo si frequentarono con curiosità le creazioni dell’allieva di Béjart, che la diversa committenza rendeva spesso diseguali, ma che sembravano riportare un po’ tutti al tema della perdita dell’innocenza, dal paradiso pastorale di Babel Babel all’erotismo nero di Hymen, dal favolistico Cendrillon gonfiato a incubo nelle dimensioni colossali dello spettacolo di consumo ai colonialistici paradisi perduti di Eden che celavano i lineamenti dei danzatori sotto maschere gommose, in un affresco alla Hieronimus Bosch popolato da guerrieri stupratori in armatura e da relitti dell’immaginario cinematografico.
Uno spettacolo di Maguy Marin è sempre una sorpresa. Dell’eclettismo la coreografa francese ha fatto quasi uno stile. C’è naturalmente di mezzo l’attrazione gravitazionale verso un’esplicita teatralità, la ricerca di invenzioni che vanno d’accordo benissimo con il meraviglioso della favola. Ma la dissoluzione della danza in un movimento da automi non è solo uno sberleffo estremo alla tradizione del balletto. C’è in effetti nel teatro di Maguy Marin un gusto per l’immagine forte, visivamente sovraccarica, gonfiata dalle musiche. E a questo mondo onirico, che non teme di scavare nelle paure e nelle perversioni dell’inconscio, bisogna lasciarsi andare, pena l’allontanarlo da sé con fastidio.
Nel progetto la volontà di non storicizzare una vicenda artistica che è ancora viva nel presente
Parola ritmo e politica sono anche le didascalie che si potrebbe idealmente applicare ai tre lunghi tavoli su cui stanno distesi i materiali estratti dagli archivi di Maguy Marin messi in mostra a cura di Paul Pedebidau al Teatro Due di Parma che ospita, insieme a I Teatri di Reggio Emilia, il progetto dedicato dal Reggio Parma Festival all’artista di Tolosa. La passione dei possibili si intitola, un titolo che dispiega tutta la ricchezza del possibile per farne oggetto del desiderio. Un mese di spettacoli fra cui il nuovo Deux mille vingt trois e il discusso Umwelt, contestato già al debutto nel 2004 per lo scomparire della danza, sostituita dall’andare e venire degli interpreti da dietro due file di specchi; e poi workshop, incontri, un film, una mostra fotografica di Piero Tauro e questa esposizione, Le travail à l’épreuve. Il lavoro alla prova, dice, ma qualcosa si perde nella traduzione. Sono quaderni aperti a una pagina forse cruciale, scritti autografi o a stampa, fotografie e qualche video però acceso su display di piccole dimensioni in modo da non prevaricare sui materiali vicini. Uno schema a blocchi riassume graficamente su un quaderno l’origine del profitto secondo Marx, ma politica è prima di tutto l’impronta che Marin dà al suo lavoro. L’artista confessa di aver sempre conservato tutto, ma senza dare troppa importanza a questi materiali fino al momento in cui le è stato proposto di riunirli in una mostra.
ECCO ALLORA aprirsi davanti a chi vi si accosta i fogli ancora graffettati dove sono appuntate le sequenze dello storico May B accanto ai diagrammi di flusso dei movimenti degli interpreti ma anche le immagini di una scena dello spettacolo. Per passare con un salto di più di dieci anni, siamo a metà dell’ultimo decennio del Novecento, ai fogli che introducono le due parti complementari di RamDam in cui Marin torna a confrontarsi con il teatro di Beckett e la «zuppa» scenica di Waterzooi, basato invece sugli scritti di Descartes – e c’era forse un pizzico di autoironia nella scelta di intitolare questo suo lavoro col nome del più popolare piatto fiammingo, pollo bollito con le patate e le verdure, un titolo che sa di cucina, di odori robusti e vapori, di ingredienti saporosi. «Talking is an exercise in constant contradiction», si legge in una scheda di RamDam. È una citazione da L’innommable.
LA PAROLA si è ormai accampata dentro il teatro di Maguy Marin. Fondamentale però è soprattutto l’emergere del ritmo come tramite tra lingua e corpo, la lingua che si fa corpo, capace di dare voce alle passioni. Un ritmo compositivo che trova espressione nei colorati grafici con cui l’artista cerca di rendere i movimenti degli interpreti sulla scena. Ciò che balza agli occhi è la volontà di non storicizzare una vicenda artistica che è ancora viva nel presente, polemiche comprese.
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