Visioni

Tra oppressi e oppressori, lotte di potere sulla torre di «Don Carlo»

Tra oppressi e oppressori, lotte di potere sulla torre di «Don Carlo»«Don Carlo» – foto di Brescia & Amisano@Teatro alla Scala

Scala Proteste e palco vip nella sera della Prima: dal loggione «no al fascismo», applausi a Liliana Segre. L’opera della maturità di Verdi, sul podio Riccardo Chailly

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 8 dicembre 2023

Da quasi tre quarti di secolo l’inaugurazione della stagione scaligera il 7 dicembre, il giorno del patrono di Milano Sant’Ambrogio, non solo consiste nella messa in scena di un’opera colossale per durata e grandiosità dell’allestimento, ma è essa stessa un colossal, in cui il mondo delle istituzioni e quello dello spettacolo del Bel Paese si incontrano, si osservano e a tratti si corteggiano, in una sfilata carnevalesca della cosa pubblica italiana che, pur ricordandoci quegli antichi riti liberatori in cui alto e basso, colto e popolare, ricco e povero, potente e umile si mescolavano (l’originaria stagione con cui la Scala iniziava le sue attività annuali si chiamava «di Carnevale e Quaresima»), sono assai poco rappresentativi del paese reale. A rappresentare i «poveri» e gli «umili» in teatro non c’è nessuno, mentre qualcuno, come sempre con pochi risultati, per lo più simbolici, ci prova fuori, come uno sparuto e pacato corteo propalestinese. A rappresentare l’«alto» delle istituzioni, che spesso ahinoi non coincide con quello della cultura, ci pensano il presidente del Senato Ignazio La Russa, contro cui hanno indirizzato un messaggio indiretto ma sferzante la sezione Anpi del Piermarini e la Slc Cgil («I fascisti non sono graditi al Teatro alla Scala»), il Vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, mai avvistato prima nel mondo dei teatri italiani, e il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, reduce dalla gaffe inarrivabile del Premio Strega, protetti da un servizio d’ordine mai riservato, nelle edizioni passate, neanche al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, questa volta assente giustificato.

foto di Brescia & Amisano@Teatro alla Scala

COMPENSANO il dislivello l’ineffabile senatrice Liliana Segre e l’anonimo spettatore che allo spegnersi delle luci in sala grida «Viva l’Italia antifascista», seguìto da un coro di «Bravo». A presidio dell’«alto» dell’arte e della cultura presenziano invece il soprano Raina Kabaivanska, le cantanti Ornella Vanoni e Patti Smith, il regista Pedro Almodovar, l’artista Francesco Vezzoli, il Presidente della Triennale Stefano Boeri, l’architetto Mario Botta, i giornalisti Natalia Aspesi e Corrado Augias. A garantire il «popolare» ci pensano come ogni anno Milly Carlucci e Bruno Vespa, che conducono la diretta televisiva dello spettacolo su Rai1. L’opera in scena è il Don Carlo di Giuseppe Verdi, che ha già inaugurato la stagione scaligera otto volte e che, tra le cinque versioni realizzate dal compositore, va in scena in quella in quattro atti scritta appositamente per il teatro milanese nel 1884: questa versione mancava dalla Scala da dieci anni, mentre quella in cinque atti è stata allestita l’ultima volta nel 2017.

Dirigere quest’opera è energia pura, racconta il male anticipando il nostro mondo. Ma lo fa da dietro le quinte, mai nella sua veste ufficiale. (Riccardo Chailly)

SUL PODIO il direttore musicale Riccardo Chailly, che con quest’opera, ha dichiarato, «chiude la trilogia sul potere iniziata con Macbeth e proseguita lo scorso anno con Boris Godunov e allo stesso tempo, dopo avere sostato nella produzione giovanile di Verdi con le prime di Giovanna d’Arco, Attila e Macbeth, torna alla maturità del compositore, che con Don Carlo ha realizzato una vera e propria «Bibbia», in cui ha compendiato le leggi del suo vasto e complesso creato drammaturgico e predisposto le chiavi esegetiche del suo mondo musicale a venire. Nell’austerità e nella malinconia a tratti composte a tratti laceranti della partitura Chailly si muove con maestria e adesione sentimentale e morale, dando energia e ritmo agli scontri tra oppressori e oppressi e prendendosi il tempo di scavare nell’anima infelice dei personaggi dell’una o dell’altra fazione: struggenti le esecuzioni dei preludi orchestrali alle arie di Filippo II («Ella giammai m’amò») e di Elisabetta («Tu che le vanità»), sconcertante quella del duetto monumentale dei bassi Filippo II e il Grande Inquisitore, uno dei pezzi più violenti dell’intera produzione verdiana. Sul palco un cast di prestigio. Francesco Meli e Anna Netrebko, alla loro sesta inaugurazione, scolpiscono gli amorosi frustrati Carlo ed Elisabetta con una intensità che lascia il segno, lei come al solito dispiegando la sua voce timbrata, le sue capacità dinamiche e la sua perizia scenica, lui dando al protagonista una forza calibrata che mescola baldanza giovanile e amletica titubanza. Luca Salsi cesella con mille sfumature un Posa eroico e allo stesso tempo accorato, polo positivo dell’opera, Michele Pertusi un Filippo malinconico ma vocalmente assai sbiadito, Elina Garanca una Eboli selvaggia e vezzosa insieme, Jongmin Park (che sostituisce l’indisposto Ain Anger) un Grande Inquisitore coriaceo. Solenne e composto il coro scaligero diretto da Alberto Malazzi.

foto di Brescia & Amisano@Teatro alla Scala

L’OPERA – è piena di grandi scene di massa ma anche di momenti più intimi, per questo abbiamo immaginato un cilindro di alabastro centrale, che quando si apre può rivelare diversi elementi», spiega lo scenografo Daniel Bianco, una torre «inquadrata in un sistema di cancellate che ricorrono nell’architettura religiosa quanto in quella civile», dal momento che uno dei principali nuclei tematici dell’opera è lo scontro tra il potere temporale incarnato da Filippo II e quello religioso rappresentato dal Grande Inquisitore. Le atmosfere che in questa cornice architettonica austera ed essenziale tenta di creare il regista Lluís Pasqual, grazie anche ai costumi di Franca Squarciapino, le luci di Pascal Mérat, i video di Franc Aleu e la coreografia di Nuria Castejón, sono quelle dei quadri di El Greco, Velázquez e Goya, in cui luce e ombra combattono una guerra senza quartiere, non diversamente dagli innamorati contendenti, dai padri e i figli, dai vincitori e i vinti. «È un’opera che parla del potere», prosegue il regista, «ma Verdi ci fa vedere questo potere sempre dietro le quinte, mai nella sua veste ufficiale. E proprio questo punto di vista ho cercato anche io di riportare», calando la rappresentazione, piuttosto tradizionale invero, nell’intimo delle contraddizioni più laceranti e insanabili e lasciandola risuonare liberamente con l’attualità delle guerre in Ucraina e in Israele. Applausi scroscianti.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento