Un uomo che ha vissuto per trent’anni con il nome di un altro, una vita sdoppiata, due vite in una. Un diario che racconta una vicenda di famiglia, che diventa una storia che s’apre su un’altra storia, come quando apri la porta che dà su una veranda e procedi di giardino in giardino e ogni volta scopri un fiore, un germoglio, una pianta che muore, una radice secolare, un’altra seccata per sempre. Un albero genealogico, una famiglia, i legami di sangue: di corpo in corpo, di anno in anno, di secolo in secolo. Fantasmi di famiglia di Maisy Card, edito qualche settimana fa da Tlon per la traduzione (tenace e molto riuscita) di Clara Nubile (pp. 370, euro 20), è un romanzo che muove i suoi passi da un segreto, quello che Abel Paisley ha mantenuto per tre decenni, vivendo nei panni di un altro uomo, Standford Solomon.

Abel in punto di morte decide di rivelare questo segreto, e da qui, da questa rivelazione, che è anche l’evocazione di un fantasma, cominciano a viaggiare i racconti di Maisy Card; diciamo racconti perché in molti casi i capitoli potrebbero essere letti da soli, oppure trovarsi in altra posizione rispetto all’indice e funzionare lo stesso. Card interseca la storia della Giamaica coloniale a quella della New York di questi anni, e se si tratta di fatti scaturiti dalle vite di una singola famiglia, si tratta anche di faccende che hanno a che fare con l’importanza dei corpi, della comunicazione che sta un pelo sopra il reale, della comunicazione che avvicina i vivi e i morti; si parla (ed è il tema dei nostri anni) di identità.

IDENTITÀ SCAMBIATE come detto, ma poi identità familiari, conservate come memorie, lasciate andare per salvarsi la pelle, per provare a respirare. «Quella notte. Stesi sui nostri letti temporanei ci siamo ricordati perché ce n’eravamo andati dalla Giamaica per sfuggire alla sensazione di vivere sotto assedio». La terra d’origine che ti fa sentire assediato, che ti fa venire voglia di scappare, di ampliare il campo per trovare qualche boccata d’aria in più, che per convenzione chiamiamo opportunità.
Il piano geografico non basta, l’involucro parentale non è sufficiente, occorre sfalsare la temporalità fare avanti e indietro nei secoli, tenere a mente gli abbracci e le streghe, fare a meno di un solo protagonista, ma disegnarne molti, scrivere un racconto corale. Card apre il nostro mondo su altri mondi, scrive di luoghi in cui è nata (Giamaica) e di altri in cui vive (New York), ma inventa un linguaggio potente con il quale rappresenta il precario equilibrio tra i fantasmi delle vite passate e il dolore che quando bisogna ricostruirsi corpo e anima da qualche altra parte.

CARD SCRIVE tenendo sempre sotto controllo il ritmo, che diventa incessante o rallenta se necessario, sa dispiegare i personaggi in trame quotidiane e poco dopo metterli in relazione con il sovrannaturale, la magia, il folclore, la morte, l’aldilà. Rancori, risentimenti, manifestazioni d’odio e d’amore, un’intensità emozionale che in alcuni frangenti sale parecchio e molti spunti di riflessione. Quando partiamo non smettiamo mai di fare i conti con le origini e con la memoria, soltanto le rielaboriamo in modo diverso, attraverso le ferite, le lacerazioni, i salti di gioia, le maledizioni, gli abbracci. Sfogliamo l’albero di questa famiglia, il diario scritto da Abel/Standford e sentiamo di farne parte, avvertiamo una sorta di vicinanza, ciascuno con il suo zaino, ciascuno per i suoi giorni e il suo tempo, ma tutti con un fardello e una speranza che aprono a una domanda, anzi due: Da dove veniamo? E, di conseguenza, chi diamine siamo?