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Tra i diciottenni irrompe Edda, nella Trieste di Svevo e di Saba

Tra i diciottenni irrompe Edda, nella Trieste di Svevo e di SabaPiazza Unità d’Italia a Trieste a fine Ottocento

Novecento italiano 1909, ultimo anno del ginnasio: una ragazza imprendibile getta lo scompiglio tra i maschi... Torna Un anno di scuola di Giani Stuparich (Quodlibet), racconto lungo di formazione sulla scia di Werther, Kröger e Törless

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 11 settembre 2022

Aveva avuto un mallevadore d’eccezione, Giani Stuparich (Trieste 1891 – Roma 1961), firmatario di un volume di Racconti usciti nel 1929 a Torino presso i Fratelli Buratti la cui direzione editoriale era affidata a un poligrafo allora di una certa fama, Mario Gromo. A costui si era rivolto per l’appunto Eugenio Montale che, non bastasse, in seguito aveva recensito su «Solaria» il libro del suo amico triestino lodandone il talento di narratore lirico e la perfetta misura dello stile («più elegiaco che internamente dialettico, più musicale che ironico scrutatore di commedie umane») e però rammaricandosi di un eccesso di prudenza nel rifiuto delle strutture architettoniche e delle vaste campiture che sono viceversa proprie della forma-romanzo. Stuparich risponderà a Montale nel 1941 pubblicando un romanzo-romanzo dal titolo Ritorneranno, vasto affresco di ambizioni epiche, storia della sua famiglia di irredentisti, specchio della fede di mazziniano con venature socialisteggianti e tuttavia un’opera di impianto troppo rigido, troppo deliberatamente costruito per poter attingere l’equilibrio e la grazia dei racconti pregressi: uno squilibrio, questo, che sarà in sostanza ribadito nel ’53 da un secondo romanzo, Simone.
Autobiografica è anche la materia relativa alle sue misure brevi, racconti o novelle, pure se l’autore fa al principio una certa fatica a smarcarsi dallo stereotipo dell’ex collaboratore della «Voce» e agitatore interventista insieme con suo fratello Carlo e l’amico-maestro Scipio Slataper, nonostante la netta avversione al regime fascista (durante il ventennio Stuparich si reclude dividendosi fra il suo villino a Scorcola, sulla collina di Trieste, e le aule del Ginnasio «Alighieri» dove insegna di Lettere) e nonostante la pubblicazione nel ’31 del suo diario bellico, Guerra del ’15, che racconta la guerra dal basso della trincea, libro di viva verità, scevro di retorica patriottarda che un classico della nostra storiografia (Mario Isnenghi, Il mito della Grande guerra, 1970) definisce come il segno sinistro di una ferita immedicabile e qui va aggiunto che l’interventismo di Stuparich non era stato affatto quello di D’Annunzio e Corradini ma, semmai, quello di Gaetano Salvemini.
Tale è il profilo etico di intellettuale democratico e cosmopolita, tali la sua dignità e il riserbo, da ridimensionare nel senso comune dei lettori il rango propriamente letterario di colui che l’amico Pier Antonio Quarantotti Gambini, post mortem, ricordò in questo modo: «Volle essere e fu un uomo giusto». Negli anni ristampato solo sporadicamente (il volume complessivo dei racconti, Il ritorno del padre, esce da Einaudi in punto di morte, nel 1961, a cura di Quarantotti Gambini e l’antologia L’isola dallo stesso editore nel ’69 nelle «Letture per la scuola media» a cura di uno studioso benemerito, Renato Bertacchini, autore anche di una pionieristica monografia, Stuparich, da Nuova Italia 1968), va dunque salutata con soddisfazione l’iniziativa di Quodlibet che lo sta riproponendo integralmente alla luce della filologia (un Fondo Stuparich giace nell’«Archivio degli scrittori e della cultura regionale» presso l’Università di Trieste) grazie all’ottima cura di Giuseppe Sandrini, il quale firma adesso la nuova edizione di Un anno di scuola (Quodlibet «Storie», pp. 98, € 12,00).
Si tratta, per giudizio unanime, di uno dei vertici della narrativa di Stuparich, un racconto lungo (o, se vogliamo, un romanzo breve) datato luglio ’26 e subito compreso nella silloge del ’29 patrocinata da Montale. Come e più di sempre autobiografica, la vicenda è ascrivibile all’anno scolastico 1909-’10, in una classe dello stesso Ginnasio superiore, a Trieste, che Stuparich ha conosciuto da studente e poi da docente. Gettato in un’unica campata, Un anno di scuola si apre con l’immagine di un sole settembrino che annuncia il tempo del conflitto interiore e del ripensamento, mentre si conclude con i segni cabalistici di un temporale estivo che prelude all’esame finale e annuncia il pieno compimento di un passaggio di fase. Dentro un microcosmo in cui convivono italiani, slavi, greci, ebrei, si intrecciano percorsi socialmente dissimili per origini e destinazioni ma paralleli nello svolgimento dinamico del Bildungsroman, il romanzo dell’apprendistato. In una classe di soli maschi diciottenni, irrompe all’improvviso Edda Marty, slava e austriaca d’origine, bella e imprendibile alla stregua di una silfide, quasi una Dafne dai capelli biondocenere, polo di attrazione per la comunità dei maschi e perciò detonatrice di pulsioni adolescenti presto incontrollabili. Di lei si innamorano Antero (specchio ustorio di Stuparich ragazzo), che è l’immagine del più aristocratico riserbo e di una gelosa introversione, Mitis (in lui si cela la figura dello scrittore irredentista Ruggero Timeus), spiccio e persino brutale nella sua impulsività, infine Aldo (nella cui silhouette si nasconde Alberto Spaini, primo traduttore di Kafka in italiano), aspirante suicida per amore di Edda. Identica la parabola del loro infatuarsi di costei così come il decorso del rispettivo disincanto, laddove la ragazza emblematizza volta a volta il sogno, l’altrove, la libertà o insomma l’utopia scagliata oltre i vincoli del mondo reale. Ognuno degli innamorati porterà a vita il segno del suo necessario fallimento così come Edda la nuova e non meno dolorosa consapevolezza di essere donna.
Dirà Stuparich a proposito del racconto nel memoriale Trieste nei miei ricordi (Garzanti 1948): «Certamente io rivivevo un ricordo lontano, ma non era questo che importava bensì la magìa per cui quel ricordo, anzi l’incantesimo di quel momento, mi apriva uno spiraglio luminosissimo in un mondo fino allora patito oscuramente, caoticamente dentro di me. Di quel mondo io, di colpo, distinguevo figure, atti e relazioni in una luce tanto oggettiva da farmi spettatore curioso e deliziato d’un dramma che non era più mio». È ben percepibile in Un anno di scuola (nel suo medesimo equilibrio, scrive Sandrini, «tra la materia autobiografica e la elaborazione poetica») se non la diretta filiazione senz’altro una comune atmosfera che rende familiari le figure di Werther, di Törless, di Tonio Kröger, di Hanno Buddenbrook, prototipi e vittime sacrificali di quella Finis Austriae che il racconto non può dissimulare tanto che, traducendolo nel ’77 in un film-tv, Franco Giraldi deciderà di postdatare la vicenda all’anno scolastico 1913-’14, nell’imminenza dell’attentato a Sarajevo.
È un’atmosfera che Giani Stuparich ritroverà nell’altro apice della sua narrativa, L’isola (1942), un racconto dedicato alla figura del padre e ai luoghi elettivi dell’infanzia in Lussinpiccolo, una discesa all’ade domestico dove pure è avvertibile la lezione di un altro suo riferimento capitale, Italo Svevo. (E va detto per inciso che il villino di Scorcola, negli anni bui del fascismo, fu un’oasi anche per Umberto Saba, per Virgilio Giotti, per Anita Pittoni e naturalmente, fra non pochi altri, per l’amico-allievo Quarantotti Gambini). Ma, paradosso ulteriore della sua triestinità, a Giani Stuparich interessava molto relativamente la psicoanalisi e a Svevo egli guardava con la schietta ammirazione che si deve a un grande artista tout court. Ne parlava come di un conoscitore della vita, un «sapiente» e, fatte salve le ovvie proporzioni, lo stesso i lettori di oggi potrebbero dire di lui.

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