A cento anni dalla pubblicazione di Teologia politica di Carl Schmitt molti sono i fattori che spingono a considerare questo testo ancora come un serbatoio da cui attingere per un’analisi della contemporaneità. Basti pensare al recente utilizzo, durante la pandemia, di normazioni eccezionali da parte degli Stati democratici, che hanno riacceso il dibattito sulla categoria elaborata da Schmitt. Per non parlare, poi, della ripresa dell’approccio schmittiano nell’analisi politica successiva allo scoppio della guerra in Ucraina.

IN ITALIA LA RICEZIONE da sinistra del suo pensiero ha una tradizione importante, attenta ai conflitti, alle durezze, agli scarti che hanno scandito la nascita, la vita e la morte delle forme occidentali della politica moderna. Particolare interesse ha destato, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, la ricezione operaista di Schmitt, che ha dato luogo a uno specifico utilizzo a sinistra del suo pensiero, proprio quando le sconfitte delle lotte operaie e la neutralizzazione del politico avevano determinato il problema di un ripensamento delle categorie politiche moderne interne al marxismo. Schmitt è stato ripreso per rilanciare un’idea di politica che fosse in grado di produrre un nuovo antagonismo a partire dall’esigenza di utilizzare la decisione in senso politico.

Dalla pubblicazione del primo volume della serie Homo sacer di Giorgio Agamben, nel 1995, ha poi avuto inizio un nuovo dibattito internazionale sulla teologia politica, che si è sviluppato in particolare dopo l’attentato a New York del settembre 2001, quando lo «stato di eccezione» elaborato da Schmitt è stato adottato come chiave di lettura privilegiata per leggere la contemporaneità.

All’origine della diffusione del concetto schmittiano di «stato di eccezione» nel dibattito pubblico degli ultimi decenni va individuata la necessità di rapportarsi ad eventi che hanno portato a smentire qualsiasi facile accettazione della «fine della storia», proclamata a gran voce dopo la caduta del muro di Berlino e all’origine di una certa «estetizzazione della verità», come si potrebbe dire usando un’espressione di Jacob Taubes. Del resto, nell’ambito della cultura europea del Novecento, è stato proprio Taubes uno degli interpreti da sinistra di Carl Schmitt che ha destato più scalpore nella Repubblica Federale Tedesca del post guerra, segnata dalla catastrofe del nazionalsocialismo e dalla difficoltà di elaborare il trauma e il lutto collettivo della Shoà.

Taubes non ha mancato di lasciare ai posteri la sua versione dei fatti nel piccolo libro pubblicato prima di morire con il titolo In divergente accordo, in cui, tra l’altro, definisce in maniera icastica il suo rapporto con il giurista tedesco con queste parole: «Carl Schmitt pensa da apocalittico, ma dall’alto, a partire dei poteri costituiti; io penso dal basso». Una definizione che, pur con le dovute differenze, coglie un aspetto importante per l’intera ricezione da sinistra del pensiero schmittiano.

OGGI, CON IL RITORNO della guerra nel cuore dell’Europa, quando sembra ormai chiaro che la storia non sia affatto finita, non possiamo non chiederci se il recupero da sinistra di Schmitt invece di contribuire a formulare una critica proficua dell’idea di «fine della storia» non abbia forse favorito un arresto rispetto alla possibilità di elaborare le difficoltà intrinseche al paradigma della post-storia, dimostrando così anche la problematicità di un certo utilizzo del pensiero dello scomodo giurista. In questione sono le stesse coordinate utilizzate da Taubes per definire il suo rapporto con Schmitt e quindi la possibilità di un’attualizzazione della Teologia politica schmittiana.

PER PROVARE A TROVARE una risposta a questi interrogativi, può essere utile partire da quanto lo stesso Taubes afferma in un saggio del 1955 dal titolo Sull’ordine simbolico della democrazia moderna, e cioè dal fatto che la conformazione anti-gerarchica della democrazia non può avere nulla a che fare con il simbolismo autoritario e patriarcale alla base della teologia politica schmittiana. Seguendo questa indicazione, con e aldilà di Taubes, è allora possibile proporre una fuoriuscita dalla griglia concettuale della teologia politica per un’analisi del presente, oggi tanto più urgente nel momento in cui le democrazie subiscono nuove forme di svuotamento della politica, ma nuovi ordini simbolici si impongono, frutto di soggetti imprevisti. Sono movimenti transnazionali e intersezionali, che costituiscono un nuova realtà, di fronte alla quale anche i sofisticati strumenti della teologia politica sono messi alla prova e la loro inefficacia risulta smascherata.

Il convegno «Teologia Politica 2022?»

Da oggi a venerdì 24, presso l’Aula VI di Villa Mirafiori di Roma si terrà il convegno internazionale dal titolo «Teologia politica 2022?», organizzato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma con la Lancaster University.
Cento anni dopo la pubblicazione di «Teologia politica. Quattro saggi sulla sovranità» di Carl Schmitt, in un nuovo tempo di crisi per molti versi simile all’epoca in cui venne pubblicato il testo del filosofo tedesco, il convegno riunisce studiosi e studiose di spicco a livello internazionale per interrogarsi nuovamente sulla sua efficacia in un confronto serrato con il presente. Tra i partecipanti, Mario Tronti, Carlo Galli, Maurizio Lazzarato, Arthur Bradley, Ward Blanton, Montserrat Herrero, Yvonne Sherwood, Genevieve Fraisse, Nader El Bizri, Saul Newman, Antonio Cerella, Paolo Napoli. Per seguirlo da remoto info su www.lettere.uniroma1.it/node/61137