Tra eterni flussi sonori e interferenze elettroniche
Note sparse «L’immagine di me lontano», il nuovo album di Francesco Giannico
Note sparse «L’immagine di me lontano», il nuovo album di Francesco Giannico
Quella di Francesco Giannico non è una musica «immediata», diretta, ma fondata su basi filosofiche, anzi fenomenologiche: va pensata – ne va esplorata la geografia, l’orografia – oltre che ascoltata. Può essere definita come metamusica, perchè riflette su se stessa, si interroga sulle proprie origini (qualcosa come uno scoccare primitivo del suono nel mezzo del nulla), sulle sue possibilità progressive, fluttuanti. Non è diffusione diretta del flusso sonoro (che sembra preesistere agli stessi processi che lo producono, agli strumenti che suonano), ma mediazione costante attraverso un filtro ambientale in cui si fanno sentire crepitii, interferenze elettriche, rantoli di animalculi intrappolati in questa dimensione di mezzo, tra la fonte musicale e l’ascolto. Qui, in questo intermezzo, sembra sostare il musicista: si direbbe che non componga ma senta arrivare la musica e la smisti verso una molteplicità di vie uditive, anche inorganiche, membrane vegetali, timpani ferrosi, padiglioni aperti nell’atmosfera. Ecco, L’immagine di me lontano, l’ultimo straordinario disco di Giannico, «dice» di distanze, di dislocazioni, nomadismi sonori: come chiazze di suono (elettronico, elettroacustico) che si propagano al di là di geometrie e di confini.
LA PRATICA MUSICALE di Giannico (andare per il mondo munito di microfoni, cuffie e altri accrocchi) si configura come una specie di rabdomanzia, di ricerca nelle profondità della terra e dell’atmosfera: solca il terreno, gli ambienti, alla ricerca di frequenze e da lì le trasmette «in superficie», come avviene nel brano inaugurale Cambiare ancora in cui, su una base armonica greve, piena di inquietudini si dipana un rif elettronico che sembra arrivare da Electronique guerrilla.
L’immagine di me lontano è un disco di sovrapposizioni di ritmi improvvisi e macchie sonore: ritmi ossessivi di tastiera e di basso su cui sorgono temi post-rock, armonie «minori», frante; erompono dal fondo scuro della terra, da fondigli pullulanti, apoteosi percussive, post-techno (come in Le cose che ti hanno sorretto), oppure il tenue, elettrico palpebrare di luce e foglie in Fremito; e su cui sbottano rumori, raucedini d’aborti, riverberi di una zona di mezzo, un piano interdimensionale da cui si sente, si avverte la musica, come una ventata, come un’ombra, da lontano.
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