Economia

Tra disuguaglianze e prosperità: il Nobel per l’economia ad Acemoglu, Johnson e Robinson

Daron Acemoglu, Simon Johnson e James A. RobinsonDaron Acemoglu, Simon Johnson e James A. Robinson – Foto Ansa

Nobel economia Fra le tesi degli studiosi, alcune linee apertamente anti-marxiste. Date le specificità istituzionali, politiche e culturali di ciascun paese, non ha senso mettersi a ricercare una «legge di tendenza» del capitalismo che possa risultare valida in generale

Pubblicato circa 8 ore faEdizione del 15 ottobre 2024

I vincitori del premio Nobel per l’economia 2024 sono Daron Acemoglu, Simon Johnson e James A. Robinson «per i loro studi sui modi in cui le istituzioni si formano e influenzano la prosperità». Capofila dei tre è senza dubbio Acemoglu, armeno nato in Turchia e poi naturalizzato americano, docente al Mit di Boston e tra gli economisti più citati al mondo.

DAL PUNTO DI VISTA metodologico, Acemoglu non si schioda dai dogmi dell’ortodossia. Le sue teorie restano ancorate al postulato neoclassico secondo cui la società sarebbe composta da individui egoisti e alienati tra loro, ciascuno teso a massimizzare il benessere personale sotto il vincolo delle risorse di cui dispone. La novità è che Acemoglu applica questa ipotesi di comportamento molto al di là della mera analisi economica, in modo da studiare anche fenomeni più ampi, tra cui l’innovazione tecnologica, la scoperta scientifica e addirittura lo sviluppo della cultura e delle istituzioni politiche. Una forma di imperialismo metodologico dell’economia mainstream sulle altre scienze sociali, potremmo dire.

Questo approccio è al centro di vari bestseller di Acemoglu e Robinson, tra cui il celebrato The economic origins of dictatorship and democracy. In questo saggio, gli autori studiano le condizioni sotto le quali una democrazia può sopravvivere o soccombere. L’idea degli autori è disincantata: la democrazia resiste quando le sue élites non hanno un forte incentivo a rovesciarla.

LA PRESENZA O MENO di questo incentivo dipenderebbe da sei fattori: la forza della società civile, la struttura delle istituzioni politiche e dell’economia, la natura delle crisi, la disuguaglianza economica, l’apertura alla globalizzazione. A seconda delle diverse possibili combinazioni di questi elementi, ciascun paese farebbe storia a sé stante, con un suo specifico sentiero istituzionale verso la democrazia o verso la dittatura.

Questa idea si collega a un’altra tesi cruciale di Acemoglu e Robinson, apertamente anti-marxista, contenuta in un saggio più recente dal titolo The rise and decline of general laws of capitalism. Date le specificità istituzionali, politiche e culturali di ciascun paese, non ha senso mettersi a ricercare una «legge di tendenza» del capitalismo che possa risultare valida in generale. Coloro che oggi provano a inseguire nuovamente Marx nella ricerca di possibili «leggi generali di tendenza» del processo storico, sono destinati a fallire.

L’accusa di Acemoglu è espressamente rivolta a Thomas Piketty, un’altra star del pensiero economico contemporaneo. Senza nascondere l’ispirazione marxiana, Piketty sostiene l’esistenza di una «legge» capitalistica che spiegherebbe la crescita delle disuguaglianze degli ultimi decenni: quando i tassi di profitto e d’interesse superano gli aumenti del reddito, il capitale cresce più rapidamente dei salari e così «i ricchi diventano sempre più ricchi». Ma Acemoglu non è persuaso. A suo avviso, anche le disuguaglianze hanno andamenti diversi a seconda delle istituzioni delle diverse nazioni. Cercare una tendenza generale sarebbe dunque una perdita di tempo.

IL METODO SCIENTIFICO richiede che l’ultima parola spetti alle evidenze. Da questo punto di vista, la «legge» di Piketty sulle disuguaglianze trova oggi vari riscontri empirici. Lo stesso si può dire per una «legge» marxiana ancor più rilevante: la centralizzazione dei capitali in sempre meno mani. Messo di fronte ai dati che la supportano, Acemoglu ha riconosciuto la tendenza e i rischi che essa implica per la tenuta della democrazia. Un «anti-marxista», sì, ma a quanto pare disposto a redimersi dinanzi ai fatti.

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