Tra crociate e jihad, un bellicoso gemellaggio
Guerre religiose Il medievista Malcolm Lambert ricorda nel suo «Crociata e Jihad», tradotto da Bollati Boringhieri, che nel dibattito sulla guerra «santa» l’Islam arrivò dopo le altre due religioni abramitiche
Guerre religiose Il medievista Malcolm Lambert ricorda nel suo «Crociata e Jihad», tradotto da Bollati Boringhieri, che nel dibattito sulla guerra «santa» l’Islam arrivò dopo le altre due religioni abramitiche
Stando all’Encyclopaedia of Islam, il gihàd è «uno sforzo mirato a un determinate obiettivo» ma anche «un’azione militare volta all’espansione dell’Islam ed eventualmente alla sua difesa», mentre l’Enciclopedia Italiana Treccani definisce le crociate «guerre combattute dai popoli europei contro i musulmani dal sec. XI al XIV, con l’intento di liberare il Santo Sepolcro, sotto la bandiera della croce e la direzione del papato».
Sembra dunque condivisibile la loro riconduzione a «realtà gemelle e interdipendenti», secondo quanto scrive Malcolm Lambert in Crociata e Jihad Origini, Storia, Conseguenze (Bollati Boringhieri, traduzione di Massimo Scorsone, pp. 478, euro 26,00), il cui intento non è quello di guidarci alla comprensione del jihad rivendicato dagli attentatori delle Torri Gemelle, né di approfondire spazi e limiti del jihad contro ebrei, cristiani, mazdei o induisti e neppure di ricordare come i musulmani non di rado avessero chiamato jihad le guerre coi loro correligionari.
Ciò non toglie che libro sia una storia dell’Islam ben scritta e ricca di utili particolari, in cui sono rare le inesattezze: tra queste, il logoro equivoco circa l’attività del primo Califfo e intimo amico di Maometto, Abu Bakr commerciante e non «cammelliere» (così come non è meccanico un commesso viaggiatore che faccia regolare uso di un’autovettura), la sua pretesa assunzione della titolatura di «Condottiero dei credenti», adottata invece dal suo successore ‘Umar, o la qualifica di «contingente militare» per il folto gruppo di mercanti politeisti di Mecca di ritorno dalla Siria che, nel marzo 624, caddero a Badr nell’agguato dei musulmani, in quello che fu ufficialmente il primo gihàd della storia islamica.
Il dibattito su guerra «legittima», «giusta» o persino «santa», non è un parto originale dell’Islàm, giunto buon ultimo rispetto alle altre due religioni abramitiche. Ben prima, con il profeta Giosuè, si condannarono per volere divino all’interdetto (cherem, eufemismo per «sterminio») «uomini, donne, bambini, vecchi, buoi, pecore e asini» che abitavano città quali Ai, Hasor, Debir o Anab e specialmente Gerico, in buona sostanza colpevoli di opporsi alla conquista israelitica della Terrasanta.
D’altro lato, in nome di Cristo e forti della benedizione di papa Urbano II, della promessa di assoluzione da ogni peccato e del sicuro premio del paradiso, i guerrieri crociati si lanciarono alla fine dell’XI secolo alla conquista del Santo Sepolcro, massacrando lungo la strada i 20.000 abitanti di Ma‘arrat al-Nu‘màn (già Apamea) e quelli più numerosi di Gerusalemme, musulmani o ebrei che fossero, eccezion fatta per i difensori islamici della Cittadella, i quali versarono ai vincitori il sonante prezzo della propria incolumità.
Tante divinità hanno avuto frequentemente sete del sangue di coloro che non le veneravano e l’Islàm, sotto questo aspetto, non ha fatto eccezione. Tuttavia, la recente ferocia del jihadismo non ha precedenti nella sua lunga storia, così come la pretesa dei tagliagole di iscriversi nel solco nella religione predicata da Maometto cozza con la normativa bellica attuata per secoli, espunta dal Corano e dalla Sunna (la «tradizione» islamica certificata) grazie specialmente al Mabsùt di Saràkhsi, non a caso definito l’«Ugo Grozio musulmano».
Il «jihad minore», guerriero, fu espresso al fine di assoggettare pagani e non e per far loro abbracciare l’Islàm, a dispetto del detto coranico che stabilisce il divieto di costrizione nella fede, tanto più cogente per quanti sono ritenuti beneficiari di una Rivelazione celeste trasposta in un Libro sacro (Torah, Avesta, Vangelo, Veda), e perciò definiti Ahl al-Kitàb (Gente del Libro), da cui si pretendeva la sola lealtà politica e il pagamento di specifiche imposte.
Sarebbe stato utile ricordare l’inammissibilità dell’odio jihadista per gli ebrei – tutti risibilmente additati come sionisti – o per i cristiani, etichettati grossolanamente come «crociati». E magari sottolineare che, se è doveroso per la normativa sciaraitica combattere a 360 gradi chi occupa un territorio islamico («jihad difensivo»), la partecipazione di donne e impuberi al «jihad di conquista» è proibita, come pure l’uccisione dei mistici sufi e dei musulmani sciiti, considerati in blocco «empi» di cui è lecito «versare il sangue». Ma la preparazione teologica e giuridica dei jihadisti, il cui vertice è spesso di provenienza militare, è notoriamente quanto mai raffazzonata.
I precisi limiti riguardanti il jihad di cui parla il Corano in 24 versetti erano ben chiari ai primi musulmani che, salvo per un pugno di volontari impegnati lungo i confini bizantini in una sporadica azione di guerriglia, di fatto fecero cadere per lunghi secoli nell’oblio tale istituzione, con la sola breve parentesi dell’Hamdanide Sayf ad-Dawla (X sec.), tanto da far parlare i cronisti musulmani d’allora di futùh (conquiste) per le operazioni islamiche di conquista, e non di jihad .
Dobbiamo a Emmanuel Sivan e al suo L’Islam et la Croisade. Idéologie et Propagande dans les Réactions Musulmanes aux Croisades la certezza che a risvegliare dal suo lungo sonno il jihad fu nel XII secolo il curdo Saladino, il quale riuscì così a scuotere dalla loro indolenza i musulmani, non solo di Siria-Palestina. Da allora il vocabolo jihad è stato usato sempre più spesso da dotti e meno dotti del mondo islamico per legittimare ogni tipo di lotta armata ritenuta giusta, proprio come da noi il termine «crociata» non ha mai smesso di ostentare un significato positivo (contro le droghe, il tabacco, la pedofilia, e così via).
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