Tra ciò che abbiamo perso e quel che saremo
Scrittori francesi L’uscita da 66th and 2nd di «Post-esotismo in dieci lezioni, lezione undici» è l’occasione per un ritratto dello scrittore, che spogliatosi dell’eredità culturale francese, fluttua tra realtà e finzione, fuori dal suo tempo
Scrittori francesi L’uscita da 66th and 2nd di «Post-esotismo in dieci lezioni, lezione undici» è l’occasione per un ritratto dello scrittore, che spogliatosi dell’eredità culturale francese, fluttua tra realtà e finzione, fuori dal suo tempo
La prima apparizione sulla scena letteraria francese di Antoine Volodine è legata a un libro intitolato Biographie comparée de Jorian Murgrave. Non è il primo che scrisse. È il primo che venne accettato da un editore. Glielo pubblicò Denoël in una collana di fantascienza dal nome fin troppo evocativo, Présence du futur. Volodine si sentiva, però, qualcosa di più di uno scrittore di fantascienza, e lo si può capire: era il 1985. Nell’anno successivo al più distopico di tutti gli anni era preossoché impossibile non sentirsi posteriori a qualsiasi idea di futuro. In effetti, Volodine si sentiva posteriore non soltanto alla fantascienza ma anche alla nozione di scrittore tout court, malgrado il suo disegno fosse quello di dedicarsi unicamente alla scrittura.
Nato nel 1950, cresciuto a Lione, ha alle spalle quindici anni vissuti come insegnante e traduttore. Se si chiama Antoine Volodine è proprio per amore della lingua che ha insegnato e tradotto, il russo. Adottò, nel tempo, anche altri nomi di battaglia – Elli Kronauer, Manuela Draeger, Lutz Bassmann – coi quali firmò altri libri, senza tuttavia considerarli eteronimi di comodo. Non sono stati modi diversi di chiamare se stesso o di nascondersi al pubblico: ognuno di questi nomi è stato uno scrittore con una propria personalità, un proprio stile, una propria opera, figure distinte da Volodine anche se a lui unite dall’appartenza a un collettivo, ovvero a una stessa temperie, tanto che Volodine parlò al plurale ogni qual volta si trovò a spiegare in cosa esattamente consistessero il mondo e l’atmosfera del post-esotismo.
Il termine nacque per scherzo nel 1991, in risposta a un giornalista curioso di sapere a quale genere letterario Volodine preferisse essere ascritto. All’epoca aveva pubblicato quattro libri, nessuno dei quali gli sembrava rientrare nella fantascienza, né nell’avanguardia francese; sicché, per scrollarsi di dosso l’etichetta di «inclassificabile», si inventò quella di scrittore post-esotico fantanarchico. Naturalmente non era uno scherzo privo di metodo. Sul finire del secolo, anzi del millennio, ci si sentiva posteri a qualunque cosa, alla modernità, alla storia, alle ideologie, orfani di un tempo esauritosi prima del tempo.
Volodine sembrava però sentirsi postumo a qualcosa che non può sparire perché assente da sempre, l’esotico appunto, ciò che è massimamente forestiero, così distante da suscitare una sorta di nostaglia anticipata. In effetti, da principio Volodine parlava di esotico anche perché pensava alle letterature di cui sono imbevute i suoi libri, letterature non francesi, tradotte, provenienti dall’ America latina, dai paesi anglofoni, dal Giappone, dalla Russia.
A partire dalla pubblicazione del suo primo libro, Volodine si spogliò dell’eredità culturale francese per intraprendere un percorso impossibile: anziché andare altrove si disse che voleva arrivare dall’altrove. I suoi libri e quelli dei suoi compagni di strada sono post-esotici in quanto esempi di «una letteratura straniera scritta in francese», non più tradotta sebbene avventizia.
Nel 1998, con l’uscita per Gallimard del Post-esotismo in dieci lezioni, lezione undici (dal 23 in libreria per 66th and 2nd, traduzione di Anna D’Elia, pp. 112, € 16,00), Volodine aggiunse un nuovo pezzo al mosaico: l’altrove da cui giungono i testi è una prigione situata in un luogo imprecisato, un luogo forse nemmeno terreno ma comunque devastato da una catastrofe. Vi sono rinchiusi rivoluzionari usciti sconfitti dalla loro battaglia contro le infamie del capitalismo, e la sconfitta ha trasformato questi combattenti in scrittori. L’esistenza dei testi è precaria, marginale quanto quella dei loro autori: vengono tamburellati sulle sbarre delle celle, mormorati a un pubblico morto o assente.
Al principio del libro troviamo uno degli eteronimi di Volodine, Lutz Bassmann, agonizzante. Ci è presentato come l’ultimo portavoce del post-esotismo e in quanto tale viene intervistato da giornalisti che gli domandano del movimento cui appartiene, movimento le cui origini – apprendiamo nei capitoli successivi – affondano nello sciamanismo rivoluzionario e hanno prodotto una sconcertante varietà di sottogeneri che ha soltanto una vaga somiglianza con le letterature esistenti.
In appendice al volume, dopo avere fatto la conoscenza di altri rappresentati del movimento e delle loro tecniche narrative, troviamo una lista di tutte le 343 opere post-esotiche di cui si abbia notizia.
Molte sono opere pubblicate anche nel mondo reale da Volodine o da identità a lui riconducibili, per esempio Angeli minori (L’Orma) o Scrittori (Clichy) o Undici sogni neri (Clichy). La tentazione di ricondurre tutto ciò alla mescolanza di realtà e finzione che ha connotato la fase terminale del secolo scorso è forte; ma sebbene sbocciato in epoca postmoderna, sebbene frutto del disagio che quest’epoca ha generato, il post-esotico ha l’ambizione di collocarsi fuori dal suo tempo. Forse, più che di mescolanza, sarebbe corretto parlare di fluttuazione.
Nell’incipit del Post-esotismo in dieci lezioni, lezione undici ci viene detto che Bassmann, come ogni altro scrittore del movimento, ha trascorso i suoi ultimi giorni tra la vita e la morte, dunque in uno stato di sospensione, in un limbo pre-morte o post-vita. È una condizione che troviamo anche in altre storie post-esotiche, se non in tutte. I personaggi di Terminus Radioso (66th and 2nd, traduzione strabiliante di Anna D’Elia) si chiedono se non siano già morti e se lo chiedono quando la storia è appena agli inizi. Si sentono sulla frontiera della vita, presi tra la morte e il sonno. Qualcosa di analogo potrebbe dirsi riguardo al legame che queste storie hanno con la realtà o con il tempo. Sono sogni? Allegorie allucinate del presente? Predizioni immaginose di un futuro prossimo venturo?
Le storie di Volodine non sono una mescolanza di realtà e finzione né si impongono di raccontare il nostro tempo, il nostro passato prossimo trasfigurandolo in una sorta di futuro anteriore. L’azione di Terminus radioso si svolge sì all’ombra di una Seconda Unione Sovietica che ha debellato il capitalismo; la desolazione radioattive delle sue lande devastate da continue catastrofi fa pensare a Cernobyl’, certamente; ma azione e desolazione sono anche governata da forze fluttuanti, da una sorta di indeterminazione quantistica che le collocano in un limbo dove nulla è fisso.
Volodine ha più volte spiegato (o annunciato) che il post-esotico non è una corrente letteraria ma un edificio estetico in corso d’opera destinato ad articolarsi in 49 libri o «oggetti d’arte in prosa». L’ultimo di questi oggetti si chiuderà con una frase decisa da tempo – «Io mi taccio» – che aleggia nell’ultima battuta di Terminus radioso, «Aspetto la fine», la cui struttura narrativa è plasmata fin nel computo totale delle battute dal 49 e dal 7, sua radice quadrata.
L’ossessione di Volodine per questo numero discende dal Libro tibetano dei morti, dove, dopo il decesso si vaga appunto per 49 giorni prima di cominciare una nuova esistenza. Ed è qui che emerge il tratto saliente del post- esotismo, l’idea di pensare la scrittura ma anche la lettura come una traversata in quella terra desolata e devastata che è il presente, perché ciò che siamo è ciò che abbiamo perduto e forse anche cio che saremo.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento