Visioni

Tra cantine ville, enoteche ad ognuno il suo jazz

Tra cantine ville, enoteche ad ognuno il suo jazzThe Thing – foto di Luca A. D'Agostino/Phocus Agency

Musica Nessuna preclusione stilistica per il festival Jazz & Wine of Peace, dall'eleganza bluesy di John Scofield alla nuova formazione dei Bad Plus

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 30 ottobre 2018

Con gli anni il festival Jazz & Wine of Peace invecchia come un buon vino. Fin dal mattino sino a notte inoltrata tra cantine, ville, enoteche e il Teatro di Cormons ce n’è per tutti i gusti. Nessuna preclusione stilistica; ad ognuno il suo jazz. Si passa così dall’eleganza bluesy di John Scofield al jazz per hipsters del trombettista Avishai Cohen, dalla rilettura sanguigna dei blues del Delta e dei maestri del free degli ottimi Roots Magic a una superba performance di flauto di Massimo De Mattia con il pianista sloveno Milko Lazar.

MOLTI GLI APPUNTAMENTI attesi dagli appassionati. A cominciare dalla nuova formazione dei Bad Plus con il pianista Orrin Evans subentrato al membro storico Ethan Iverson. Ci si chiedeva come sarebbe stata la musica di un gruppo che della paritarietà ha fatto uno dei suoi fondamenti senza uno dei componenti fondatori. Attesa non delusa perché i tre musicisti hanno fornito un esempio luminoso di cosa sia un moderno jazz trio con pianoforte. Ritmi a velocità impossibile, interplay serrato, senso del gioco preso molto sul serio. Evans ha una personalità forte e modifica il suono complessivo. Reid Anderson e Dave King suonano che è una meraviglia. Altro appuntamento di rilievo è stato il concerto, registrato dalla etichetta ECM, di Egberto Gismonti. Diviso in modo speculare tra chitarre e pianoforte il musicista ha ancora una volta dimostrato come la sua poetica sia precisa, coerente e cesellata con cura pescando a piene mani nella musica colta e popolare brasiliana rilanciandola in un universo globale. Gran classe .

DELUSIONE invece per la storica Art Ensemble of Chicago. La mitica band oggi schiera solo due dei membri originari, il sassofonista Roscoe Mitchell e il batterista Don Moye ai quali si sono aggiunti altri musicisti tra i quali, a sorpresa, la contrabbassista Silvia Bolognesi. Un lungo ed estenuante brano alla ricerca di qualcosa che non è apparso, un solo al sopranino di Mitchell, la consueta sigla “Odwalla” . Una occasione mancata di celebrare i cinquant’anni di una delle formazioni che hanno scritto la Storia della musica.

INTERESSANTE la finestra aperta dal Festival sulla nuova scena britannica con due gruppi di musicisti poco più che ventenni. Se è apparso ancora fragile, ma con potenzialità tutte da esprimere, il quartetto Exodus del batterista Moses Boyd è invece più convincente il trio di un altro batterista: Yussuf Dayes con Rocco Palladino al basso e Charlie Stacey alle tastiere. Una formazione votata al primato della pulsazione che traduce in jazz irresistibili ritmi hip hop avvolti in nuvole di tastiere vintage e space-pop. Intrigante. Il concerto perfetto? Almeno due.Il primo è stato quelle del sestetto Ghost Horse nato come estensione del trio Hobby Horse di Dan Kinzelman, sax, Joe Rehmer, basso e Stefano Tamborrino, batteria, con Filippo Vignato, trombone, Glauco Benedetti, tuba e Gabrio Baldacci, chitarra elettrica. Tutte originali le composizioni eseguite a volte legandole in forma di minisuite. Un suono scuro e denso, perfettamente bilanciato. Individualità riconoscibili e senso del collettivo. Suggestioni amplissime: afro, psichedelica, rock-blues, drone music.

Il secondo è stato quello del trio scandinavo The Thing. Il sax sputafuoco di Mats Gustafsson, qui a tenore e alto, il basso abissale e punk di Ingebrigt Håken Flaten e la batteria tonitruante di Paal Nissen-Love sono impegnati da vent’anni con furia belluina a sbriciolare le casematte del jazz rassicurante e salottiero. L’urlo di Albert Ayler e vibrazioni dritte allo stomaco. Quando il pensiero incontra il corpo: Jazz.

 

 

 

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