Visioni

Tra ambizioni e vendette nei territori della camorra

Tra ambizioni e vendette  nei territori della camorrauna scena dello spettacolo Il sindaco di rione Sanità – foto di Mario Spada

A teatro Mario Martone mette in scena un classico di Eduardo De Filippo «Il sindaco di rione Sanità». Il regista porta nel presente il testo, rivelando orrori e connivenze. Un cast di giovani intorno a Francesco Di Leva, Giovanni Ludeno e Massimiliano Gallo

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 11 marzo 2017

San Giovanni a Teduccio sta nel contraddittorio hinterland partenopeo. Ma in questi giorni al Nest, centro teatrale ben radicato dentro una scuola in disuso, segna un momento importante della cultura scenica italiana. Una svolta decisiva nella lettura di uno dei suoi più significativi autori: Eduardo De Filippo. Che chiaramente esce qui dalla propria pur felicissima tradizione, per assumere la statura e lo spessore del grande classico. Su quella scena letteralmente «eccentrica» ma dal sapore europeo, Il sindaco di rione Sanità (al Nest fino al 17 marzo, poi a Torino fino al 2 aprile) rilancia con forza esplosiva la sua scrittura, ne scopre ricchezza e contraddizioni proficue, premonizioni e lucidità in grado di turbare oggi, e di venire interrogate domani, quasi necessariamente se si vorrà trarre dal teatro di Eduardo un senso che ci riguardi nel profondo.

Non è un miracolo improvviso questo. Eduardo senza Eduardo l’abbiamo visto già in scena, scoprendo problematiche che ci toccano in punti sensibili del nostro oggi. Sono state vere riscoperte di senso le due bellissime esperienze eduardiane di Toni Servillo (Sabato domenica e lunedì e poi Le voci di dentro), e la stessa tensione di Luca De Filippo sui testi paterni negli ultimi anni (Non ti pago capolavoro di amarezza oltre la comicità), già lontane dall’aura magica del grande attore che portava i suoi testi in scena. Latella ha tentato addirittura di ribaltare Casa Cupiello, sbilanciandolo però verso la propria lettura, che schiacciava il testo fino a renderlo addirittura «oscuro». Il sindaco fu scritto nel 1960, all’apice del «boom» economico, l’anno delle Olimpiadi a Roma e del televisore in ogni casa. Ma la vicenda che narra non era, come a tutti sempre è sembrato, esaltazione ottimista dell’intesa tra le persone, in grado di ricomporre qualsiasi frattura grazie al buon senso e alla generosità di un leader autorevole e riconosciuto. Che equilibrando legalità e buon senso popolare, riusciva fuori della legge a sanare dissidi e conflitti, anche di qualche spessore (se non sanguinari, talvolta). Qui al Nest, senza la presenza rassicurante di Eduardo, e con un drastico abbassamento d’età degli interpreti, tutto ci parla in maniera diversa.

Mario Martone ha rispettato il testo, se non per qualche piccolo aggiustamento: è più sensato «andare a prendere il cellulare in macchina» che non a raccogliere le uova dalle galline. Come pure è più coinvolgente lasciare aperto il finale che si interroga sulle responsabilità di ognuno, senza bisogno di trovare il «colpevole» esemplare. Per il resto la sua regia lancia i giovani e giovanissimi attori del gruppo a esprimere conflitti e gerarchie, interesse e cuore, rabbia e illusioni. E a teatro certe cose trasmettono un calore difficile anche per le migliori serie tv.

Su un pavimento di plexiglas piantato su tubi che suggeriscono un equilibrio labirintico, chiuso da cancelli e entrate di sicurezza, la casa di Antonio Barracano ci sbalza nei territori della camorra vecchia e nuova, giovane e ora giovanissima, come le cronache ci raccontano. Lui è l’ago della bilancia tra interessi di un singolo ed esperienza vorace del gruppo, tra ambizioni e vendette, tra sentimenti e legami che non riescono più oggi a nascondersi e motivarsi gli uni con gli altri. Ma da apparente filantropo, quel Sindaco extraistituzionale rivela oggi impietosi condizionamenti e adesioni. E tutti i personaggi di quel mondo hanno lo stesso destino, su nessuno di loro è possibile un giudizio univoco. Eduardo vedeva nettamente la sorda omologazione dei valori in corso, e vi affondava il bisturi, mascherando col buon senso e l’ironia l’orrore che la parola individuava come uno scanner.

Mario Martone ne fa grande spettacolo, con la sua regia, mescolando movimenti corali di dignità operistica (anche se il sound è quello aspro del rap), con scorci improvvisi e fulminanti da gangster movie. Soprattutto dando coralità e vibrazioni alla compagnia dove si muovono irresistibili ragazzi in marcia verso il teatro, attorno a tre attori importanti. A cominciare da Francesco Di Leva, protagonista e motore dell’intera impresa (convinse Luca De Filippo per i diritti e poi la Ldf che ne ha assunto la produzione assieme allo stabile di Torino); poi ancora Giovanni Ludeno, inquietante medico «buono» che ha scelto di dedicare la sua professione alla malavita, e Massimiliano Gallo, straordinario fornaio piccolo borghese, pronto a trasformare la sua maschera glaciale in quella del giustiziere.

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