Tozzi, dal languore liberty al barbaro Viani
A Siena, Santa Maria della Scala, "L’Ombra della giovinezza. Federigo Tozzi e le arti figurative", a cura di Riccardo Castellana, Michela Simona Eremita e Luca Quattrocchi Per lo scrittore senese le arti figurative furono una sorta di verifica della prosa, che da dannunziana – il riscontro è nell’estetica di De Carolis – si farà simile alle xilografie di Lorenzo Viani
A Siena, Santa Maria della Scala, "L’Ombra della giovinezza. Federigo Tozzi e le arti figurative", a cura di Riccardo Castellana, Michela Simona Eremita e Luca Quattrocchi Per lo scrittore senese le arti figurative furono una sorta di verifica della prosa, che da dannunziana – il riscontro è nell’estetica di De Carolis – si farà simile alle xilografie di Lorenzo Viani
Non certo in tutte le epoche pittori, musicisti e letterati godettero d’una eguale considerazione sociale. Anche nel Rinascimento, quando le arti s’affratellarono nella comune ammirazione per l’Antico, un aiutante di bottega del Botticelli doveva menare un genere di vita assai diversa da quella d’un poeta. Fu l’Ottocento, in special modo, a stringere gli artisti sotto un’unica bandiera: Murger li mise nella stessa soffitta e li fece sedere ai medesimi caffè; Nordau, qualche decennio più tardi, li avrebbe etichettati indistintamente come degenerati.
In questa familiarità quasi collegiali fra devoti di muse diverse non fece eccezione Federigo Tozzi, come mostrano i risultati dell’esposizione, curata da Riccardo Castellana, Michela Simona Eremita e Luca Quattrocchi, L’Ombra della giovinezza Federigo Tozzi e le arti figurative, fino al 20 luglio al Santa Maria della Scala di Siena. All’epoca della sua giovinezza, anzi, questa prossimità stava quasi per prendere l’aspetto d’una falsa ispirazione, giacché Tozzi i suoi primi anni li trascorse all’Istituto d’arte di Siena. Lì conobbe gli autori delle opere che vediamo in queste prime sale: Anita Renieri, Fulvio Corsini e, soprattutto, Patrizio Fracassi, nei cui lavori lo scrittore dovette vedere come preconizzarsi quelle sue creature dibattute e macerate entro una vita strozzata e senza sfogo che avrebbero poi distinto la sua narrativa: che queste s’intravedano in un cavallo stecchito ai piedi d’un uomo lacero e patito, come in Compagni di sventura (1903), o, come ne Lo schiavo avvelenato (1900), in un morente raffigurato nelle sue ultime convulsioni con qualcosa nelle carni stracche e nella posa stravolta che fa pensare alla celebre Peste del ceroplasta Zumbo.
Non si può dire, invece, che nelle opere di Corsini, di gusto arcaicizzante (contribuì con Joni alla gran fabbrica di falsi destinati al mercato straniero), si possa intravedere qualcosa del Tozzi maggiore, quello del Podere e di Con gli occhi chiusi, ma all’epoca lo scrittore s’interessava alle suggestioni medievali, componeva crestomazie di antichi poeti senesi, e scriveva cose nel gusto della dannunziana Francesca da Rimini. Fu in questa temperie che Tozzi s’accostò all’«Eroica», la rivista di Ettore Cozzani, dominata allora dal De Carolis e dalla sua scuola: scuola, quella del De Carolis, che non soltanto amava le ombreggiature lunghe e pastose d’un michelangiolismo illanguidito sul quale era passata l’ombra triste del Burne-Jones, ma anche le fontane silenziose e i parchi lustri e inviolati (si pensi a Donne in giardino o a La fonte di Giovanni Guerrini, uno fra i suoi più dotati proseliti), quell’atmosfera d’hortus animae, ineffabile e musicale, che dalle famose pagine di Walter Pater su Giorgione s’era diffusa in Italia attraverso la mediazione di Angelo Conti.
A codesto immaginario preraffaellita Siena offriva due ingredienti tipici: le torri e le fontane. Tozzi ne ricavò un poema, La città delle vergini, in cui era cantata «l’acqua cupa d’ogni fonte» nel cui riflesso «l’anima della Vergine pareva / specchiarsi con le nere lupe a fronte; / e nella grande purità scendeva», la «mistica città» dai «filari pieni di sole e di benedizioni», e altre consimili cose. Le illustrazioni non erano meno eloquenti del testo nell’echeggiare il gusto febbrile dell’epoca: in una delle tavole di Ferruccio Pasqui vediamo un arciere nudo colpire un’aquila il cui piumaggio sembra ispirato alle acconciature delle dame di Rossetti; nella copertina, disegnata da Gino Barbieri, è invece un armigero in primo piano e, dietro di lui, un cavallo, che richiama, inquadrato com’è sotto una possente architettura cinquecentesca, quelli della famosa sala di Palazzo Te.
Ma tali strascichi d’estetismo liberty non erano che la luce lontana d’una stella morta (lo stesso Barbieri, nelle incisioni realizzate al fronte, Messa al campo, Mare nostro, Avanti per la Patria!, lascerà che le ombre gravino, invece ch’esaltarla, sulla plasticità dei corpi). Per quel che riguarda la xilografia, il colpo di grazia lo diede Cozzani, quando, nel 1914, annunciò di voler estromettere dalla rivista quegli artisti che, sull’esempio di De Carolis, avevano fatto dell’incisione su legno «una imitazione dell’acquerello, dell’incisione in metallo, del disegno a penna, abusando dei tratti sottili e delle graffiature per simulare il rilievo, o delle sovrattinte per gareggiare coi giapponesi»: pas la Nuance, rien que le contour. L’arte si voleva adesso dura, scagliosa. Anche la prosa doveva mutare: a toccare i contorni delle parole ci si doveva ferire la lingua, come alla punta di un bulino.
La svolta per Tozzi avvenne in Con gli occhi chiusi, al quale cominciò a lavorare in quello stesso anno. Intanto lo scrittore si trasferiva a Roma e anche l’allestimento delle sale muta di tono: ai corridoi stretti e angusti, che alludono al dedalo delle antiche strade senesi, succedono sale ampie e ariose, come le piazze del Seicento romano. Nella capitale Tozzi conobbe Spadini, De Angelis, Ferrazzi, lo scultore Ercole Drei, Oppo e Pasquarosa, la modella di Felice Carena, passata poi alla pittura. E se a scorrere le tele di Spadini, col suo colorismo veneziano, rinfrescato da Bonnard e dagli Impressionisti, o la cedevole eleganza, docile e mellea, di lavori come Serval (1915) di Alfredo Biagini fatichiamo a trovare analogie con lo stile dello scrittore, nei quadri della Pasquarosa (Calendule, 1914, Teiera sul tappeto, 1914, Angelina, 1915) o di Ferrazzi (Il Tevere da via Ripetta, 1915) scopriamo, invece, più facili affinità.
Ma l’artista più prossimo a Tozzi fu senza dubbio il Viani, al quale è dedicata una delle sale più ghiotte. Entrambi riuscirono infatti a trarre dallo studio dei primitivi, com’era allora chiamati gli artisti medievali, le fonti d’un rinnovato movimento espressivo: Viani ricopiando l’arte delle antiche chiese toscane (come nelle xilografie calcate sui bassorilievi dei Mesi del Duomo di Lucca, che l’artista realizzò fra il 1922-’28), Tozzi con l’assidua frequentazione dei trecentisti senesi, al punto che par quasi di ritrovare, in alcune descrizioni della campagna de Il podere, quella spazialità scorciata e contratta dei pittori antichi. Le parole con le quali Emilio Cecchi descrisse le figure di Tozzi, «scavate con barbara violenza e con impeto sprezzante, ma piene d’una chiusa forza angosciosa», possono, d’altra parte, adattarsi altrettanto bene alla tecnica incisoria di Viani, come si vede nelle matrici xilografiche esposte. Entrambi rappresentarono con preferenza un mondo buio e circoscritto, Viani prese talora a soggetto il mare della natia Viareggio ma per farne quasi sempre quel cupo orizzonte alle tribolazioni degli indigenti che si vede nel superbo Benedizione dei morti del mare (1914-’16). Ci sono artisti che rendono ariosa una stanzetta, senz’altro lusso che qualche terraglia da versarvi il latte, come Vermeer, e ve ne sono altri, invece, che sanno rendere anguste le campagne, con le loro fughe di poggi e casolari, e desolate le rive del mare.
Tozzi scrisse nel 1919 un articolo sulla personale dell’amico presso la Casa d’arte Bragaglia a Roma: «già dietro alle sue figure (…) si comincia a vedere un bisogno più decisivo di mettere su qualche tinta; che rende ancor più cupa e più triste la totale rappresentazione». L’arte di Viani ebbe il tempo di svilupparsi ulteriormente. Tozzi invece non sopravvisse ai suoi capolavori. Quando Viani dedicò a sua volta un articolo all’amico sul Corriere della sera era il 1933: Tozzi da tredici anni non faceva più parte di questo mondo.
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