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Tour e mondiali di calcio come macchine del mito

Tour e mondiali di calcio come macchine del mitoLaurent Fignon sull’ammiraglia, dopo aver perso la cronometro decisiva di Verona, al Giro d’Italia 1984, contro Francesco Moser

Critica dello sport Negli articoli sportivi di Franco Cordelli i grandi eventi continuano a produrre segni, cioè «romanzi», anche quando il tifo è cessato. Torna in libreria, da Luigi Pellegrini, «Scipione l’italiano»

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 30 aprile 2017

L’Olimpiade, o un Mondiale di calcio, o il Tour de France sono luoghi in cui «il nazionalismo si sublima», dove «il passato non è maestro di vita», dove – finalmente – «coincidono i nostri due grandi nemici, il caso e la necessità». Sono «macchine mitologiche» che producono segni e che continuano a produrli anche quando il tifo è cessato. In una parola, romanzi. Sono questi segni che Franco Cordelli indaga in Scipione l’italiano, una raccolta di alcuni suoi articoli sportivi riproposta ora da Luigi Pellegrini editore (pp.142, € 12,99) a ventisei anni dalla prima edizione per Gremese. Morfinizzato, culturalmente, dalle odierne superficiali trasmissioni televisive dove il giornalista è, nello stesso tempo, «opinionista» e fazioso, il lettore di Scipione l’italiano scoprirà finalmente come si deve parlare di sport e come essere tifoso. Per le coordinate è sufficiente l’articolo che apre il libro, un dialogo morale nel quale si confrontano le opinioni di un grande tifoso (Scipione, ovvero lo stesso Cordelli) e di una non-tifosa (Vittorina), la quale accusa il suo interlocutore di non essere altro che «un credente», il quale corre a casa ad accendere la televisione come se dovesse andare a una messa. Scipione le fa notare che «lo sport, come tutto, è naturalmente due cose: una realtà e una metafora. Solo che non si sa più quale sia la realtà e quale la metafora».
Gli sport sui quali Cordelli si sofferma più a lungo e volentieri sono il calcio (che, tra tutti i giochi di squadra, giudica «il più complesso ed evoluto»), il ciclismo e l’automobilismo. Piuttosto che racconti, i suoi testi sono discussioni, o spunti per una discussione sullo sport. A sostegno delle sue tesi, Scipione-Cordelli chiama di volta in volta a testimoniare Flaubert, Henry Miller, Verga, Malraux, Flaiano, Savinio, Kleist, Baudelaire. Il quale Baudelaire è citato nell’epigrafe di apertura: «La superstizione è il serbatoio di tutte le verità». Chi, infatti, è più superstizioso del tifoso di calcio che crede sempre di avere la verità in tasca? Quale fede religiosa è più forte della fede nella propria squadra in un calcio che, come sosteneva Moravia nel ’90, è la religione della civiltà di massa? Cordelli ha il merito di non manifestare mai la sua, non mancando tuttavia di stilare una classifica dei dieci migliori ciclisti di tutti i tempi o tratteggiare in poche righe i migliori giocatori dei mondiali di Spagna (1982) e del Messico (1986), a partire da Platini.
L’articolo dedicato al Gran Premio automobilistico di Imola, nel quale Gerhard Berger – come Lauda dieci anni prima – ebbe un grave incidente, è l’occasione per parlare del rapporto con la morte e, ancora una volta, della fede nello sport: «Credo in Dio e nella Ferrari», disse il pilota in ospedale. Entrambi i piloti austriaci si sono salvati, ma sarebbe stata possibile la morte di entrambi. «Il risultato è lo stesso», scrive Cordelli, il quale qui ricorda due bellissimi versi di Elio Pagliarani: «Quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere».
Resta il dato, ancora una volta, della superstizione sportiva: «Tutti i valori, in ultima analisi, anche i più sacri, non sono che superstizione», scrive Cordelli. Perché «valori non ce ne sono, se non quelli che ci inventiamo, un po’ per caso, un po’ per un’oscura necessità, che è lo stesso». In definitiva, il libro di Cordelli non è che una lunga e disincantata dichiarazione d’amore, perché lo sport è un amore vero, al quale pochi – sportivi e tifosi – saprebbero rinunciare.

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