Come in un un gioco di specchi, Antonio Capuano, che di Napoli padroneggia i palcoscenici e ancor più gli schermi, oltre ad esser stato maestro di allievi eccellenti (un nome per tutti Paolo Sorrentino), si rivolge ora a quelli che sono in qualche modo stati i suoi maestri. Ha scritto e messo in scena così (fino al 27 novembre al Mercadante di Prato) un racconto i cui protagonisti si chiamano Totò e Peppino, come la coppia aurea del cinema anni 50. Proprio gli anni in cui appariva in Europa un genio incompreso o di difficile comprensione, Samuel Beckett.

È IN EFFETTI una bella intuizione mettere a confronto in un racconto teatrale Totò e Peppino, con i loro dialoghi ricchi di umanità e buon senso quanto «sgangherati» e arbitrari nella forma, con la scrittura altrettanto rarefatta e «misteriosa» del grande irlandese. Capuano precisa di aver avuto già a suo tempo la sensazione di una qualche coincidenza nel loro narrare. Tanto eccessive e paradossali suonavano le parole dei due artisti napoletani, da sfiorare almeno in apparenza l’astrazione di Beckett che pure poggiava su una fisicità ineliminabile dei suoi personaggi.

CAPUANO mostra in scena questa «parentela», arrivando a dire che il bisogno di nuovi testi da parte dei due artisti napoletani si esplicitasse proprio mentre dalla Francia arrivavano echi della scrittura «misteriosa» dell’altro, che per alcuni caratteri suoi distintivi lo faceva classisificare frettolosamente tra gli autori di un «teatro dell’assurdo». Il pretesto comunque è buono, e permette oggi all’autore di mandare in scena, soli e isolati protagonisti , quasi prigionieri in casa, due attori come T & P, Totò e Peppino. Omaggio a Samuel Beckett.
Roberto Del Gaudio e Carlo Maria Todini, come fossero le ombre di Totò e Peppino (nel soggiorno precario che sembra per altro uscito da una commedia di Eduardo) a suon di battute che evocano i loro ispiratori, intrecciano tutti i conflitti e le confidenze del mondo, umani quanto strampalati, svagati quanto calcolatori. Una situazione appunto «dell’assurdo», dove le vite si scaldano e si consumano senza che niente mai cambi.