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«Totò che visse due volte», una storia italiana di censura

«Totò che visse due volte», una storia italiana di censura

Cinema Il film di Ciprì e Maresco che venne bloccato, messo sotto processo, attaccato dai cattolici integralisti. Da oggi è disponibile sulla piattaforma del Cinema Ritrovato nella versione restaurata

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 18 febbraio 2021

La storia di Totò che visse due volte inizia alla Berlinale del 1998: è lì infatti che Daniele Ciprì e Franco Maresco – in realtà solo Ciprì a Berlino vista la risaputa avversione per i viaggi di Maresco – lo presentano per la prima volta a un pubblico conquistando l’entusiasmo della critica internazionale spiazzata dal bianco e nero visionario e dolente del duo più talentuoso del nostro cinema – «Lo scandalo? Forse ci sarà, il rischio ce lo prendiamo ma non abbiamo voluto fare nessuna provocazione» aveva detto Ciprì incontrando i giornalisti.

Le difficoltà per il film erano iniziate già durante la lavorazione, quando i registi avevano deciso di produrlo in proprio dopo la rottura con Aurelio De Laurentiis – il produttore era Rean Mazzone, la troupe aveva lavorato quasi gratuitamente. Il montaggio era andato avanti a lungo, si era arrivati a una nuova versione, ma la lavorazione dei film di Ciprì e Maresco non è stata mai semplice come accade a quelle opere indocili, che vogliono affermare non per principio ma nella sostanza della loro forma uno sguardo indipendente.

L’USCITA di Totò in Italia (con la Lucky Red) era prevista poco dopo la trionfante proiezione berlinese, il 6 marzo. All’orizzonte però apparvero subito i «fustigatori». A iniziare è Claudio Sorgi, il sacerdote e massmediologo definisce i due registi «bestemmiatori», grida alla vergogna che il loro film sia stato finanziato con soldi pubblici pur ammettendo di non averlo visto. Poco male, le cronache dal festival gli sono bastate: la sua è una censura preventiva. E sarà proprio così. Il film viene bloccato ancora prima di arrivare in sala, non vietato ai minori, non tagliato ma bloccato – cosa che per i registi significa un danno economico enorme visto che gli impedisce di accedere al fondo di garanzia.

Sembrava assurdo sprofondare nuovamente nell’oscurantismo che mise al rogo Ultimo tango a Parigi di Bertolucci o La ricotta di Pasolini, anzi peggio, quei film almeno in sala ci erano arrivati, a sequestrarli e a bruciare i negativi ci avevano pensato poi magistratura e carabinieri. Totò invece viene condannato a priori dalla «settima commissione di censura» – anzi di «revisione cinematografica» – per blasfemia, perché è osceno, perverso «inguardabile» e come tale deve restare invisibile – questi gli «esperti»: Leonardo Ancona, psicologo; Angela Santucci Galli, pedagogista; Elda Turco, docente di diritto; Ornella Ciuti, regista, unica «dissidente» con la motivazione che in quel modo si faceva pubblicità al film; Giuseppe Virgilio, giornalista (assente alla seduta), Severino Bianchi, rappresentante delle industrie cinematografiche, che si disse in disaccordo. E pensare che eravamo nell’Italia della seconda repubblica, post-democristiana, e che un’altra commissione ministeriale lo aveva definito «un film di interesse culturale nazionale».

LE REAZIONI sono immediate e numerose: registi, studiosi, critici anche cattolici come padre Virgilio Fantuzzi si schierano a sostegno dei registi palermitani e della loro opera chiedendone la liberazione, mentre la politica (i Verdi, l’Ulivo, Veltroni ministro della cultura) prende le distanze dalla censura. Si arriva così all’appello con una sentenza storica: non solo Totò può uscire in sala anche se vietato ai minori di 18 anni, ma Veltroni presenta un disegno di legge (targato Mauro Paissan e Nando Dalla Chiesa) per abrogare la censura preventiva.

IL CALVARIO del film ( dei suoi registi) però non era finito. I cattolici integralisti capitanati da Militia Christi e sostenuti dalla destra di An danno battaglia, organizzano picchetti e proteste inferocite davanti alle sale che proiettano il film – come già accaduto a L’ultima tentazione di Cristo di Scorsese. «In Totò c’è la bestemmia di chi si sente solo e abbandonato, per questo è un’opera profondamente sacra e spirituale. Ma soprattutto è un film sincero» disse Maresco a una delle presentazioni in sala.

Già perché nel frattempo gli autori, Mazzone, lo sceneggiatore Calogero Iacolino erano finiti sotto processo per «vilipendio alla religione» e tentata truffa ai danni dello stato (ravvisata dal pm Piro per avere chiesto un contributo superiore al costo effettivo del film una volta terminato); una vicenda che si concluse dopo oltre tre anni, nel 2001, con la piena assoluzione di tutti gli imputati. «Noi rappresentiamo un cinema che in Italia non si è mai fatto, rappresentiamo il male di vivere, la fame, la morte, il sesso. Questo produce una sensazione di sgradevolezza, perché l’Italia è un Paese ridanciano, un Paese che non vuole pensare…» (Franco Maresco, intervista su «Alias», 1999 a cura di Elfi Reiter).

Per tutto questo, per capire meglio la nostra storia (e dunque il nostro presente) e perché è un film magnifico, non si deve perdere l’occasione di scoprirlo o di rivederlo, grazie alla Cineteca di Bologna, nella versione restaurata in 4K (con la supervisione di Bigazzi) da oggi sulla piattaforma di Il Cinema Ritrovato fuori sala. Di cosa parla Totò che visse due volte, titolo ispirato a quello italiano di Vertigo di Hitchcock (un’idea di Maresco) La donna che visse due volte, e senza alcun riferimento al «principe della risata»?

IN TRE EPISODI i registi tornano nella loro Monument Valley, Palermo (Waste Land di Eliot l’aveva chiamata Edoardo Bruno), un paesaggio eretico tra western-spaghetti speziato, pensiero filosofico, il sentimento dell’arcaico, da artisti popolari, un’ ironia raffinata e la profonda sacralità che pone l’uomo e l’animale sullo stesso piano. Nell’arte di Ciprì e Maresco gli umili sono i reietti denigrati che sfuggono all’iconografia della docilità, e sono invece inquieti e per questo incontrano il Signore.

Nel primo episodio Paletta (Marcello Miranda), irrefrenabile onanista, ruba i gioielli votivi del boss per appagare il suo irrefrenabile desiderio sessuale. Nel secondo si ricostruisce la storia d’amore tra Fefè (Carlo Giordano) e Pitrinu (Pietro Arcidiacono), l’anziano amante omosessuale, alla veglia funebre di quest’ultimo. Nel terzo un Messia malandato (Salvatore Gattuso) resuscita un Lazzaro mafioso che comincerà a vendicarsi subito dei suoi assassini, mentre un angelo viene sodomizzato da tre bruti e depredato delle ali.

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