«E seguito a stampare finché il quadro non è tutto pieno, cioè tutto vivo, tutto presente, tutto offerto, tutto unico». È il marzo 1958 quando Toti Scialoja affida al suo Giornale di pittura tutta l’eccitazione, che è emozione del pensiero e intelligenza del corpo, per la sua nuova esperienza della pittura, una pratica del gesto e un’indagine dello spazio in cui trovava forza e ritmo la scoperta delle impronte. Che sia avvenuta per fortunoso e subito leggendario incidente (e c’è forse la memoria del rivelatore quadro capovolto di Kandinsky nell’aneddoto del foglio di giornale portato dal vento che avrebbe suggerito a Scialoja il gesto ripetuto dello «stampaggio»), o che sia maturata nel corso di una ricerca ostinata e sempre tesa, frutto di quella «sua ebrezza e angoscia di scopritore» di cui scriveva, folgorante, Pasolini nel 1955, quello che è certo è che la stagione delle Impronte è sicuramente uno dei momenti più intensi dell’avventura di artista e di intellettuale dell’artista romano. Lo attestano con netta evidenza le trenta opere selezionate da Peppino Appella per la personale – Toti Scialoja. Impronte, appunto in corso fino al 30 aprile alla Galleria dello Scudo di Verona.

Realizzata con la collaborazione della Fondazione Scialoja, al cui impegno si deve anche la recente edizione critica dell’intero Giornale di pittura 1954-1966 (a cura di M. De Vivo, L. Iamurri, O. Nuzzolese, A. Rorro, Quodlibet), del quale era stata pubblicata nel 1991 una piccola e preziosa antologia selezionata con amorosa discrezione da Gabriella Drudi, dedicataria di quelle «pagine di una pittura vissuta insieme», la mostra disegna un preciso itinerario cronologico che dal 1957 giunge al 1963, documentando grazie a opere esemplari (una per tutte, Il sette di settembre del 1957, dipinto da molti considerato inaugurale della serie delle Impronte) e ad affilate parole una fase cruciale della ricerca di Scialoja.

Se davvero, come ebbe a notare Gillo Dorfles, nelle pagine del Giornale si è realizzata «l’assoluta simbiosi tra operazione pittorica e sua esegesi», la scelta di scandire le bianche pareti della galleria veronese non solo con dipinti ma anche con generose citazioni tratte appunto da questo singolare diario d’arte, un regesto critico di evidente memoria «letteraria», più che offrirsi come una facile soluzione museografica appare una vera e propria necessità, un modo di restituire la complessità di un percorso di ricerca profondamente umanistico, oltre che umano. Un lavoro e un itinerario di pensiero in cui pittura e poesia, musica e filosofia sono confluite per dare origine a uno sguardo e a un gesto di profonda, soggettiva e, per questo, universale verità.

«La mia pittura tende non ad una immagine ma ad una visione», è la citazione dal Giornale che Appella – a cui si deve anche la cura del catalogo generale dell’artista, di prossima pubblicazione da Silvana Editoriale – ha scelto come titolo per il testo critico con cui ha accompagnato questa personale . Un saggio informatissimo, condotto con puntualità, con una riconoscibile misura resa meno severa da un respiro poetico che svela antiche e coltivate vicinanze, un’amicizia che non annebbia ma illumina il pensiero. A essere evidenziato nel processo attraverso il quale Scialoja ha individuato nelle Impronte il luogo di una sperimentazione in cui «conoscenza e felicità sono connesse», è ancora una volta «il rapporto evidente che c’è tra il pittore e il critico». Scialoja, Appella non ha dubbi, «è l’unico tra gli artisti della sua generazione ad aver fatto della deduzione critica un mezzo di creatività. (…) Basta averlo sentito parlare di spazio, di colore, di luce, di ritmo, di realtà, di formule segrete sepolte nelle pieghe della pittura, per avvertire chiaramente quanto il concetto fatto parola abbia nutrito l’opera, si sia posto come struttura e metodo del dipinto».

Toti Scialoja, «Corda bianca», 1963
Toti Scialoja, «Corda bianca», 1963, Roma, Fondazione Scialoja

Percorrendo le stanze e i corridoi che disegnano la storica galleria dello Scudo, dove l’opera di Scialoja ritorna per la terza volta, la consonanza fra i dipinti e i pensieri dell’artista si manifesta con silenziosa potenza, facendosi domanda, chiedendo attenzione e tempo. Soprattutto tempo, perché la pittura di Scialoja, nelle Impronte specialmente, è senza dubbio arte del tempo e ha il passo musicale della danza. Danza che era stata, certo, quella della pittura di Pollock, la quale , si legge nel Giornale, «è come un distribuirsi equanime e incessante su tutto l’universo della tela», ma che è anche il linguaggio del corpo che l’artista romano legge e riconosce alla luce dell’utopia, per niente intellettuale, dell’opera d’arte totale, Gesamtkunswerk di cui Scialoja si fa originale interprete nel suo Discorso sulla pittura, la musica e il teatro (1949). Di questa attenzione per la danza, per un movimento (un gesto) che si libera dal peso in «sensibile liquido pittorico», recano espressiva traccia le profonde superfici, i segni sonori, i rossi accesi, così come i lirici grigi che si espandono sulle tele, Impronte che vengono anche Dal teatro (titolo di un’opera del 1960) e raccontano di un’esperienza pittorica che nel cruciale viaggio americano del ’56, nello studio delle opere di Gorky e nell’incontro – «puro ritmo di incontri umani» -– con de Kooning, con Rothko, con Motherwell e Guston, aveva trovato non una maniera da imitare ma una decisiva verifica, una conferma a partire dalla quale si sono schiusi ulteriori orizzonti. Pittorici ed etici, perché la pittura ha a che fare non con la rappresentazione ma con l’affermazione, provvisoria quanto convinta, di «una posizione morale, una situazione di pensiero sul mondo».

Le opere in mostra raccontano così di una stagione luminosa, per alcuni versi irripetibile, della pittura di Scialoja, e allo stesso tempo sono prove in dense e plurali materie (sabbia, vinavyl, polvere di marmo ma anche garza, pizzo, corda) di un’esperienza di laboriosa riflessione, raccoglimento ed esplosione, perfetta nel suo misurato squilibrio (Grande disparo, 1959). Una scoperta e una liberazione, un doppio movimento che si riconosce senza fine sulla tela e si dichiara in parole precise, che hanno l’ambiguità e il nitore della poesia, della filosofia: «L’impronta è un avventarsi contro, e insieme un venirti incontro della realtà fisica». Una tensione doppia, un contatto del corpo e attraverso il corpo – le lezioni di Merleau-Ponty seguite a Parigi sono più di un colto riferimento – che ha valore terrestre, fuori da ogni tentazione biografica, da ogni eccesso di «psicologia ingigantita». Nel tempo ritmato di una danza, azione e trance, le Impronte riservano ancora una promessa di felicità: «allora la pittura mi scoglie i polsi, mi rende leggero, sospeso».