«Tornare nei paesi spopolati è la nuova frontiera dei giovani»»
Intervista L'antropologo Vito Teti, teorico della «restanza», affronta il fenomeno di chi ritorna nei luoghi d’origine e dei neoabitanti: «Vivere nelle aree interne non è da tutti»
Intervista L'antropologo Vito Teti, teorico della «restanza», affronta il fenomeno di chi ritorna nei luoghi d’origine e dei neoabitanti: «Vivere nelle aree interne non è da tutti»
Si deve a Vito Teti, professore di antropologia culturale all’università della Calabria e figlio di un lavoratore emigrato, l’invenzione del termine restanza. Nel suo libro Pietre di pane, fra le diverse forme del viaggiare annovera il restare: un «sentimento dell’abitare che, in sé, è un viaggio». E la restanza, insieme al neopopolamento di aree interne marginalizzate, è uno degli obiettivi di Riabitare l’Italia, un’associazione di studiosi, enti locali, progettisti, piccola fucina di ricerche, progetti, seminari e libri collettivi. L’ultimo è Voglia di restare (Donzelli 2023), curato fra gli altri da Andrea Membretti, docente di sociologia del territorio all’università di Pavia ed esperto di migrazioni interne e internazionali in relazione allo sviluppo locale dei luoghi del margine.
La tendenza allo spopolamento delle aree interne sta continuando oppure si è innescato un trend contrario?
La nostra ricerca Giovani dentro ha lavorato su persone nate o vissute a lungo in quei territori, dunque sui restanti. Ma anche sui ritornanti, dopo periodi a lavorare o studiare altrove. In misura minore, sui neo abitanti. Fra queste tipologie ci sono punti di contatto – l’idea di natura, la voglia di tranquillità, l’impegno ad applicarsi nella cura della comunità – e differenze: la capacità progettuale è a volte superiore nei neo-abitanti e nei ritornanti, specialmente rispetto all’innovazione. Dalla ricerca passiamo a interventi concreti. Questi, ad esempio: un hub di montagna nella valle Subequana in Abruzzo, con uno sportello di in-formazione per chi vuole sviluppare progetti in quell’area ad alto tasso di spopolamento, e la sperimentazione della Scuola di pastorizia che ha già avuto una prima edizione fra Piemonte e Lombardia a cavallo fra il 2022 e il 2023 e proseguirà ogni anno.
Non tutte le aree interne godono della stessa attrattiva.
Andare a gestire un rifugio in Valle d’Aosta non è come rimanere in un’area interna calabrese. Oltre alle differenze sostanziali, gioca il fatto che su certi immaginari si è lavorato molto anche a livello mediatico. A parte questo, sostengo lo slogan «non tutte, non per tutti»: non possiamo riattivare tutte le aree interne o montane – molte probabilmente vanno accompagnate nel loro tornare selvatiche, con un re-wilding mirato e intelligente – e non tutti possono vivere in territori remoti. I giovani sì, gli anziani spesso no. La frontiera, terra a cavallo fra mondo urbano e mondo selvatico, non è per tutti.
Come si supera la claustrofobia nelle aree interne e remote?
Certi ritornanti e neoabitanti sono affascinati dalla remotezza dei luoghi. È un po’ la frontiera nell’accezione del Nord America o dell’Europa orientale. Vai verso qualcosa che apre verso nuovi orizzonti. Ma occorre costruire un nuovo immaginario di vita. I giovani stanno già rivelando in molti casi un’attrazione simbolico-culturale, sulla quale si deve investire perché non rimanga velleitaria. Inoltre, il nostro slogan è «invertire lo sguardo»: anziché guardare dal centro, dalle città, guardare partendo dalle aree interne.
Nel colloquio fra Vito Teti e Caterina Salvo emerge il fatto che la natura intesa come fonte di benessere è tra le principali ragioni addotte dai giovani per restare, insieme alla qualità della vita e delle relazioni sociali.
Sì. Ed è così in tutte le macro-aree italiane interessate dalla ricerca. In alcuni contesti, soprattutto nel Sud e nelle aree interne non turistizzate, si aggiunge il vantaggio legato al costo inferiore dei beni essenziali e degli immobili.
Molti giovani restanti o ritornanti si occupano soprattutto di servizi. Insomma: i vantaggi del vivere in un bel posto senza la fatica di dover fare agricoltura?
È diffuso il desiderio di lavorare nel settore primario in senso lato, ma se si guardano i dati del nostro campione, solo il 4% dei soggetti intervistati ha un’attività in questo campo. Comunque, anche gli altri rimangono ancorati al territorio; non sono tutti pendolari o smart workers avulsi dalla realtà locale. C’è chi fa piccola imprenditoria, attività cooperative, produzioni di nicchia. Noi facciamo progetti di formazione perché in grandissima parte i giovani che vivono nelle aree interne hanno curriculum ben poco coerenti con le vocazioni dei territori. Si pensi in particolare al Sud e alle giovani donne e ragazze, con alle spalle studi umanistici. Eppure, sono fortemente motivate e attive.
La vita nella natura è un movente centrale nella restanza. Ma l’impronta ecologica della vita nelle aree interne può anche non essere molto sostenibile, ad esempio per via della mobilità incentrata su mezzi di trasporto privati.
Sì, in effetti soluzioni di mobilità sostenibile sono molto lontane dall’essere attuate, in territori con scarsa demografia. Va però rivalutata una certa «immobilità», dove il lavoro è in loco e si può ridurre la necessità di recarsi nei poli urbani. E poi, nel «vivere sparso» contano i numeri piccoli. Anche pochissimi giovani possono invertire la rotta di luoghi in declino, proponendo poi modelli di sviluppo diversi, nei quali per esempio diminuire drasticamente il peso antropico sul territorio.
Anche sviluppare una green economy equa non è facilissimo.
E qui torniamo alla formazione. Perché ci sono realtà che si sanno muovere, magari perché vengono dalle città e hanno più strumenti per attivarsi sul tema green, mentre i ragazzi del posto ne mancano. Un altro tema è la gestione dei potenziali fondi, la partecipazione ai bandi: una fatica enorme per i piccoli comuni a corto di personale. Occorre una redistribuzione dei poteri e delle capacità, altrimenti il tema dei servizi ecosistemici diventa campo di scontro, con concorrenti da fuori. Importante poi, sul lato delle istituzioni, la Strategia nazionale per le aree interne (Snai). In ogni caso gli interventi devono partire dai territori, non essere calati dall’alto; lo indica chiaramente il manifesto dell’associazione.
Ci sono elementi di sperequazione fra le diverse aree remote, e al loro interno. Un po’ come il bonus 110 andato spesso a chi aveva più possibilità economiche.
Già, ci sono enclave che diventano autosufficienti ma altre persone nell’area non ne beneficiano perché non sono nelle condizioni di cogliere le opportunità, di lavorare sull’innovazione. E’ essenziale trasferire le competenze e redistribuire così opportunità e diritti concreti. Un altro elemento di sperequazione riguarda categorie come anziani e stranieri: molto difficili da coinvolgere nei processi. Vediamo bellissime start-up innovative e magari lì a fianco il pastore macedone come figura residuale abbandonata che sta tre mesi isolato sui monti della Laga.
A proposito: come si coinvolgono gli stranieri, la cui presenza oltretutto sarebbe utile a ringiovanire le aree interne?
Sono una componente potenzialmente molto importante, ma è molto difficile raggiungerli anche con le ricerche. Sono presenti a volte in modo irregolare, hanno residenze diverse. Ci prefiggiamo di coinvolgerli. Ma certo molti migranti stranieri non hanno immaginari montani, ma piuttosto metropolitani; sono «montanari per necessità».
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