Torna il rebus Tempesta fra naturalismo e soggetto
Marco Ruffini, "Pittura e soggetto. Il caso della Tempesta di Giorgione", Campisano Una nuova ipotesi tematica per il capolavoro, ma soprattutto l’analisi di come differissero, rispetto al problema «narrativo», tradizione veneta e tosco-romana
Marco Ruffini, "Pittura e soggetto. Il caso della Tempesta di Giorgione", Campisano Una nuova ipotesi tematica per il capolavoro, ma soprattutto l’analisi di come differissero, rispetto al problema «narrativo», tradizione veneta e tosco-romana
Nelle sue Considerazioni sopra la pittura (1617-’21 circa), Giulio Mancini raccomandava di comporre le istorie mettendo i protagonisti «nel luogo più visto», lamentando che questa regola «non hanno osservato alcuni pittori moderni come il Bassano, et alcuni fiamminghi che nella Natività di Christo l’han posto in sito lontano». La tradizione critica tosco-romana non perdonava quei dispositivi messi in atto da artisti appartenenti a culture figurative maggiormente orientate verso il naturalismo (i veneti e i fiamminghi, nella fattispecie) che erano funzionali a un’attualizzazione della storia, sacra o profana che fosse. E non si trattava sempre e solo di un problema di collocazione delle figure: se Mancini avesse visto il Censimento di Betlemme di Brueghel (1566; Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts) magari avrebbe riconosciuto in quel gruppo al centro della tela la Sacra Famiglia, con Maria sul dorso dell’asino, ma nulla, in quella scena nevosa ambientata in una cittadina delle Fiandre, gli avrebbe evocato il racconto evangelico; di fronte a un soggetto più raro, l’identificazione sarebbe stata quasi impossibile.
Un naturalismo troppo schietto non poteva essere tollerato dagli intendenti e teorici della Roma di primo Seicento, che infatti riservarono a Caravaggio un trattamento non certo benevolo. Agucchi in qualche modo lo associava (non a caso) proprio a Bassano; Zuccari e Bellori, da parte loro, ne avrebbero ricondotto lo stile alla matrice di Giorgione, un altro pittore veneto; anzi, il padre del naturalismo veneto.
Sull’annosa questione di un possibile rapporto Giorgione-Caravaggio ritorna Marco Ruffini, brevemente ma con osservazioni illuminanti, nel suo Pittura e soggetto Il caso della Tempesta di Giorgione (Campisano, pp. 222, e 40,00), un libro sorprendente, tanto nel titolo quanto nella scansione interna, che mira prima di tutto a mettere a fuoco il naturalismo veneto di primo Cinquecento, a partire da un’originale e stimolante riflessione sulla questione del soggetto in pittura. La tesi, lucidamente enunciata nell’introduzione: lo stile di Giorgione, così convincentemente naturalistico da far sembrare le cose non dipinte, ma vere, vive, «compromette (spesso, ma non sempre) la riconoscibilità del soggetto».
Il caso-studio da cui prende le mosse l’analisi di Ruffini è la celeberrima, iper-decodificata, Tempesta, per la quale viene qui proposta l’ennesima interpretazione iconografica. Ancora?, si chiederanno i lettori più accorti, e giustamente scettici. E Ruffini risponde subito, chiamandola prudentemente ‘solo’ una nuova ipotesi, e rimandandola alla seconda parte (ecco il perché di quella che sembra un’inversione tra titolo e sottotitolo), laddove la prima (che però ne è figlia), serve da cornice, la prepara, e in qualche modo costituisce anche la conclusione della ricerca, il suo frutto più importante.
Questa prima parte è quindi un denso saggio di storia della letteratura artistica, con affondi sulla teoria naturalistica dell’arte di Castiglione contrapposta a quella di Bembo, che tra natura e arte propende per il primato della seconda (Ruffini avverte che nella prima età moderna, e non solo, occorre considerare «il discorso sull’arte come un continuo e irrisolvibile braccio di ferro tra arte e natura»); e con la rivalutazione degli spunti forniti da fonti della letteratura artistica veneta spesso neglette, quali Paolo Pino e Carlo Ridolfi. Ma è anche, a volte solo sottotraccia, una riflessione sulla tradizione degli studi iconologici, che hanno eletto spesso la Tempesta a banco di prova, da Edgar Wind a Charles Hope, fino naturalmente a Salvatore Settis (e alla sua memorabile Tempesta interpretata, Einaudi 1978), riconosciuto come principale interlocutore, sebbene se ne respinga la teoria del soggetto nascosto.
Per Ruffini è impensabile che il pittore cercasse a bella posta di mescolare le carte di fronte al suo pubblico, fosse anche solo il committente, o peggio (come altri hanno creduto) non raffigurasse, nella Tempesta, alcun soggetto. Il problema starebbe nell’applicare a quel dipinto, o ad altri veneti di primo Cinquecento, un metodo interpretativo che funziona soprattutto per la pittura tosco-romana, cresciuta nell’alveo della tradizione critica di Alberti e Vasari, dove il soggetto è cosa ben distinta dallo stile, ed è spesso di natura eminentemente, e anche meccanicamente, letteraria.
Intelligentemente (e astutamente?) stabilito che la pittura del Giorgione maturo è per sua natura mai troppo dipendente da una fonte letteraria, e punta invece alla rivitalizzazione del contenuto di questa, Ruffini può presentare al lettore la sua proposta, che non vuole far tornare a posto tutti i pezzi di un possibile puzzle iconografico, come invece ambiva a fare Settis (il quale, sia detto per inciso, vedeva nella Tempesta la raffigurazione di Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso Terrestre). Il soggetto del dipinto sarebbe un episodio della vita di Maria Maddalena, così come raccontato da Jacopo da Varazze nella sua duecentesca Legenda aurea, insospettato best seller della Venezia rinascimentale.
Qui la sintesi di una storia, per la verità, molto lunga e priva di un unico acme drammatico (da cui deriverebbe la scelta di Giorgione di condensare in un’unica immagine più tempi del racconto): un principe della Provenza, dove la santa predicava, parte con lei, e con la moglie incinta, per un pellegrinaggio. Una tempesta (eccola) li coglie in mare, nasce il figlio, muore la madre, e i due vengono abbandonati su un’isola. Al ritorno dal pellegrinaggio il principe fa sosta sull’isola e trova il bambino che, miracolosamente vivo, ma giustamente impaurito, si rifugia al seno della madre, che ancora giace defunta, sebbene abbia continuato sempre ad allattarlo; subito dopo anch’ella è riportata in vita dalla Maddalena, e per ringraziamento di così tanti miracoli, il principe ripudia definitivamente il paganesimo e ordina la distruzione di idoli e templi.
Tranne il mare e l’isola, nella Tempesta sembra esserci quasi tutto; e d’altronde non tutto deve quadrare in una tela di Giorgione, l’autore lo ha anticipato. Quelle strane colonne rudere al centro, allora, servono a evocare i templi distrutti, e il tempo dilatatissimo del lungo racconto sarebbe mirabilmente sintetizzato, con la madre già risorta, e il ricordo della tempesta da cui tutto ebbe inizio. Alla luce della tradizione iconografica di questo soggetto, non popolare, certo, ma nemmeno rarissimo (Giotto, ad esempio), emergono tanti confronti significativi (e il libro, grazie anche al notevole lavoro di Campisano, è ottimamente illustrato).
C’è poi la questione della prima versione del dipinto, rivelata dalle radiografie, con l’immagine di una donna nuda sulla sinistra, inginocchiata, poi sostituita dall’uomo che si vede oggi: si tratterebbe, secondo la lettura di Ruffini, della stessa Maddalena che aveva operato i miracoli. Su di essa Giorgione avrebbe poi sovrapposto il principe-pellegrino (ecco spiegato il lungo bastone del protagonista, che già nel 1530 sembrava a Marcantonio Michiel un «soldato», sebbene sia vestito elegantemente, almeno secondo la moda del primissimo Cinquecento), raffigurato un po’ incongruamente in piedi, senza svolgere alcuna azione, invece che nell’atto di inseguire il figlio ritrovato. Ma d’altronde nella pittura di Giorgione quest’assenza di pathos narrativo non è affatto sorprendente, è anzi una cifra ricorrente.
E così, un libro nato da un’interpretazione iconografica, finisce per essere (fortunatamente) una dichiarazione d’intenti di ben più ampio respiro, poiché come scrive Ruffini, di fronte alla Tempesta gli studiosi si sono spesso dimenticati che «un dipinto è innanzi tutto il testimone di un modo di dipingere».
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