Tony Ballantyne e Antoinette Burton, effetto collaterale: contaminazione dei punti cardinali
Mossi da un condivisibile scetticismo nei confronti della teleologia del terreno globale – «la globalizzazione non è la destinazione naturale né necessaria di tutte le storie moderne» – lo studioso neozelandese di formazione oxoniense Tony Ballantyne e la professoressa statunitense di gender studies, Antoinette Burton si sono concentrati su quello che Carl Schmitt aveva chiamato «l’elemento tellurico della sovranità» nei sistemi coloniali, interpretandoli come «regimi di pianificazione territoriale».
Nel loro ultimo libro: L’età degli imperi globali, 1870-1945 (traduzione di Piero Arlorio, Einaudi, 2022, pp. XXXI-187, € 22,00) i due autori evidenziano il loro debito verso quello che è stato chiamato con una certa enfasi Spatial Turn, la svolta che ha segnato un mutamento epistemologico di notevole spessore a cavallo tra XX e XXI secolo, quando le interpretazioni sulla formazione dello Stato moderno sbiadivano di fronte all’emergere di nuove sensibilità storiche e politiche e alle aperture di inediti orizzonti intellettuali.
Un ribaltamento di metodo che comporta il ripensare gli spazi non come immobili sezioni di un territorio bensì come luoghi di produzione culturale e sociale in movimento pulviscolare di esseri umani. La diffusione, a partire dagli anni Cinquanta del XIX secolo, di esposizioni universali da un lato e di carte geografiche, atlanti e mappamondi da un altro, agirono come fattore unificante dell’immaginario collettivo.
Addio al centro imperiale
Ballantyne e Burton abbandonano l’idea di un centro unico imperiale, sia esso rappresentato da Londra e Parigi o da Istanbul e Tokyo, per valorizzare le collisioni e le contaminazioni tra imperi, poteri e consuetudini locali preesistenti.
Il rapporto tra metropoli europee e avamposti coloniali – osservano – comporta commistioni tra nazionalismi e imperialismi, attraversate da una vorticosa crescita economica e da violente forme di resistenza, con implicazioni politiche, razziali e di genere che si riverberano tra i due mondi. I principali fautori nel XIX secolo di questo incontro tra spazi coloniali e individualità indigene furono i missionari la cui opera evangelizzatrice avvenne attraverso il monopolio dell’istruzione, un’arma che garantiva un potere economico, sociale e politico.
Nell’intreccio delle geografie imperiali – letto alla luce dei nuovi assetti geopolitici, apparentemente estranei alle logiche della sovranità statale – lo studio di Tony Ballantyne e Antoinette Burton valorizza la dimensione territoriale delle formazioni imperiali tra Otto e Novecento quando l’accumulazione di territorio diventò indizio, insieme materiale e simbolico, di potenza nazionale e prestigio economico, sia in imperi di antica tradizione coloniale come Inghilterra e Francia che in stati-nazione più recenti come Italia e Germania: un grande impero era il contrassegno della modernità di una nazione.
Attraverso una prospettiva dal «basso» che capovolge la tradizionale ricostruzione dei rapporti diplomatici tra e negli Imperi, lo studio di Ballatyne e Burton dimostra come il dominio coloniale – tanto quello britannico che quello ottomano o giapponese – non abbia mai raggiunto un controllo totale e incontrastato su sudditi e territori, ma abbia alimentato esso stesso forme tradizionali e inedite di resistenza, compresi i movimenti nazionalisti che avrebbero avuto un grande ruolo tra le due guerre mondiali nell’erodere dalle fondamenta l’intero sistema politico-ideologico imperiale.
Circuiti anticoloniali
La trasformazione delle relazioni sociali tra colonizzatore e colonizzato fu resa anche possibile dallo sviluppo di una complessa tecnologia, iniziata con l’avanzata del naviglio a vapore e conclusa con l’avvento delle linee aeree, e all’incremento dei collegamenti tra colonie che attivarono nuovi circuiti transnazionali di solidarietà anticoloniale.
Le iniziative di ostacolo al potere statale imposto dalle potenze occidentali furono tra loro profondamente diverse e non facilmente inquadrabili nella medesima cornice ideologica. Significativo il caso, apparentemente secondario, del profeta Rua Kenana che, nella Nuova Zelanda dei primi anni del XX secolo dominata dall’Impero britannico, fondò una comunità denominata «Città di Dio», la cui ideologia coniugava Antico Testamento e insegnamenti della tradizione maori e auspicava una rinascita economica e spirituale.
Per quanto fallimentare, il progetto restituisce tuttavia il duplice volto della colonizzazione: imposizione del potere imperiale per trasformare la popolazione locale in docili sudditi coloniali e resistenze dei nativi, pronti a lottare, anche attingendo all’armamentario del colonizzatore, per rivendicare il proprio spazio vitale.
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