Tonio Hölscher, un bel tuffo nella Realtà
«Il tuffatore di Paestum» La scena è troppo concreta e vitale per poter rinviare all’aldilà: il saggio di Tonio Hölscher (Carocci) sulla «silhouette» scoperta nel 1968
«Il tuffatore di Paestum» La scena è troppo concreta e vitale per poter rinviare all’aldilà: il saggio di Tonio Hölscher (Carocci) sulla «silhouette» scoperta nel 1968
Cosa sarebbe accaduto se la Tomba del tuffatore di Paestum fosse stata riportata alla luce oggi, nell’epoca del revival sensazionalistico dell’archeologia in cui persino due vasi e qualche ciotola di uso quotidiano, rinvenuti in una domus pompeiana, vengono presentati come una scoperta eccezionale? Non è difficile pensare al clamore e all’entusiasmo che avrebbero suscitato su media tradizionali e social-network le immagini di «questo straordinario esempio della grande pittura greca, con i suoi valori cromatici chiari e luminosi». E che dire di quel giovane tuffatore «che si impone per l’eleganza della figura e la grazia del gesto, un fascino cui risulta difficile sottrarsi»? Egli sarebbe diventato certamente un personaggio «virale», un po’ come successo di recente ai Bronzi di San Casciano dei Bagni. Non che l’enigmatica «silhouette» ritratta nella lastra di chiusura del sepolcro scoperto il 3 giugno del 1968 non si sia ugualmente trasformata in un’icona, universalmente nota, dell’Antichità ma mezzo secolo fa i crucci degli archeologi andavano oltre la notizia eclatante. Delle «sfide onerose» connesse al recupero dell’«opera d’arte impareggiabile» che la Poseidonia-Paestum greca «serviva su un piatto d’argento» parla Tonio Hölscher (cui appartengono le diverse citazioni sopra riportate) in un breve e gradevolossimo saggio: Il tuffatore di Paestum Cultura del corpo, eros e mare nella Grecia antica (traduzione di Valentina Tortelli, Carocci editore «Saggi», pp. 125, euro 16,00).
Lo studioso emerito della Ruprecht-Karls-Universität di Heidelberg descrive dapprima lo stupore degli archeologi al momento dell’apertura della tomba, allestita un secolo prima di quelle già note, intorno al 480 a.C., la cui decorazione costituiva una insperata testimonianza pittorica relativa a una città dell’Occidente greco – già splendente per la magnificenza dei suoi templi – , e poi la lucidità del direttore degli scavi Mario Napoli. Questi, pur non avendo avuto la fortuna di posare per primo gli occhi sui dipinti diede subito disposizioni per il trasporto della lastra di copertura al museo e si preoccupò di mettere in sicurezza il sito per scongiurare furti notturni. Il mattino dopo, ebbe cura di far smontare le restanti lastre parietali affinché non venissero danneggiate dai primi raggi di luce. Hölscher racconta ogni dettaglio con partecipazione, al punto che saremmo quasi portati a credere si fosse trovato egli stesso sulla «scena». In particolare, l’autore tiene a sottolineare la fermezza del soprintendente nell’anteporre la tutela dei fragilissimi affreschi, i cui colori rischiavano di scomparire, alla frenesia degli organi di stampa e dell’opinione pubblica. Tutti, d’altronde, volevano essere spettatori di quel leggiadro e millenario tuffo. Ma Napoli – ricorda Hölscher – tenne le pitture «sotto chiave» durante ventitré mesi, per consentire l’asciugatura dei colori e una conservazione ottimale delle lastre. E se fu da subito ben disposto verso l’ambiente scientifico, non tardò neppure a presentare le opere a un pubblico più vasto con una monografia apparsa soltanto due anni dopo la singolare scoperta.
Ed è proprio guardando a quel volume, la cui copertina strizzava l’occhio alle locandine dei film peplum in voga all’epoca (La Tomba del tuffatore. La scoperta della grande pittura greca, De Donato, 1970), che Hölscher elabora un’interpretazione controcorrente della «misteriosa» scena del tuffo, illustrata sul lato interno del coperchio funerario. Com’è noto, sulle quattro pareti della tomba a cassa sono invece raffigurati uomini giovani e adulti, in maggioranza sdraiati a coppie su letti conviviali. La tensione erotica del simposio, espressa nei gesti e negli sguardi degli amanti, non riesce però a superare il vigore – al contempo carnale e spirituale – del giovinetto dalla pelle scura, che da una «torre» di pietra spicca nella sua garbata nudità il salto verso uno specchio d’acqua increspato. L’attimo, per sempre sospeso, è incorniciato da una natura appena abbozzata ma vitale. E se per Hölscher, gli alberi che crescono l’uno sulla riva opposta, l’altro alle spalle del tuffatore «allargano i rami come còlti da un intenso desiderio erotico verso il bell’efebo», significa che la potenza dell’arte continua ad alimentarsi attraverso un’immaginazione scevra di costrizioni accademiche. Tuttavia, la pittura del Tuffatore – una rappresentazione fuori dall’ordinario – non può limitarsi alle interpretazioni emozionali, sebbene esse vadano attualmente di moda nel quadro di strategie comunicative tese ad accattivare le masse. Tornando all’ideale greco della kalokagathia tramandato da Winckelmann, Goethe e Schiller e rifuggendo gli scritti successivi di Burckhardt, Bachofen e Nietzsche, che ostentarono al contrario la «faccia oscura» – irrazionale e orientata alla morte – della cultura greca, Hölscher propende per un’interpretazione realistica della scena del tuffo, troppo «concreta e vitale» per rimandare, in quanto metafora, all’aldilà.
In sintetici ma efficaci capitoli, lo studioso tedesco analizza ogni dettaglio del dipinto, dall’edificio-trampolino che per Bianchi Bandinelli riproduceva invece la porta dell’Ade, alla postura atletica del giovinetto, indubbiamente avvezzo – ritiene Hölscher – alla pratica sportiva del nuoto. Molti i confronti iconografici, topografici, mitologici e letterari offerti dall’autore in favore della propria tesi, che esalta la «banale realtà» piuttosto che la trascendenza. Nondimeno egli fornisce tutti i riferimenti di un lungo dibattito che ha visto misurarsi numerosi e illustri specialisti, i quali però concordano in gran parte con l’interpretazione simbolica, escatologica e mistica della lastra del Tuffatore.
Anche Mario Napoli, il cui nome resta soprattutto legato alle ricerche nell’antica colonia greca di Elea-Velia, sostenne fin da subito che il tuffo può essere spiegato come «allegoria della liberazione dell’anima dal peso del corruttibile corpo, per la sopravvivenza della purificata anima al di là della morte». Un’ipotesi che, secondo lo studioso campano, non contrasta con i culti esoterici e più in particolare con la dottrina orfico-pitagorica, del resto ampiamente diffusa in Magna Grecia. Su questo tema, così come sullo stile delle pitture insiste la bibliografia ragionata in appendice al testo, di fatto un utile approfondimento a ciascuno dei dodici capitoli che Hölscher tratta con vivacità e rigore.
Ma chi era il defunto le cui ossa si polverizzarono all’apertura della cassa? Per quanto riguarda l’identità culturale, Napoli mise in relazione le pitture ispirate all’arte greca con la «dolce vita» della città di Poseidonia-Paestum, l’avamposto più settentrionale della cultura greca rispetto alle civiltà autoctone dei popoli italici (a nord gli Etruschi avevano colonizzato l’area intorno all’odierna Pontecagnano). Per Bianchi Bandinelli, che recensì il saggio di Mario Napoli su «Dialoghi di Archeologia» (IV-V, 1970-71), lo stile «locale» degli affreschi sarebbe espressione di un ceto superiore autoctono, mentre Emanuele Greco (’82) propende per un gruppo ristretto di non cittadini greci sulla base della collocazione isolata della necropoli. E se Mario Torelli (’97) ha identificato il defunto con un immigrato etrusco per la somiglianza dei dipinti con le testimonianze delle grandi tombe a camera di quel popolo, Gabriel Zuchtriegel (direttore del Parco Archeologico di Paestum e Velia dal 2015 al 2020) lo associa all’élite autoctona della città. La recente e corposa edizione degli Atti di Convegno pubblicata da ETS nella collana «Argonautica» del Parco Archeologico di Paestum e Velia, è l’ulteriore testimonianza del filo mai spezzatosi tra il Tuffatore e i «suoi» affezionati studiosi: in La Tomba del Tuffatore. Rito, Arte e Poesia a Paestum e nel Mediterraneo d’epoca tardo-antica, a cura di Angelo Meriani e dello stesso Zuchtriegel, si trovano infatti contributi non solo di Hölscher ma anche di Agnès Rouveret e Angela Pontrandolfo, autrici dell’indimenticabile volume Le tombe dipinte di Paestum (Panini, 1992).
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