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Toni D’Angelo, un poliziesco per raccontare l’essere umano

Toni D’Angelo, un poliziesco per raccontare l’essere umano

Intervista Il regista e il protagonista Fortunato Cerlino raccontano «Falchi», ambientato in una Napoli universale

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 1 marzo 2017

Quello dei Falchi è un reparto speciale delle squadre mobili di polizia fatto di agenti in motocicletta che possono penetrare anche nei luoghi più inaccessibili della città.

Di questa squadra fanno parte Peppe (Fortunato Cerlino) e Francesco (Michele Riondino), i protagonisti di Falchi di Toni D’Angelo, ambientato in una Napoli vista al di fuori dagli stereotipi e all’interno di un poliziesco che a sua volta «tradisce» le regole del genere, prediligendo all’azione e ai clichè l’emergere del rapporto umano tra i personaggi e il loro dilemma morale – Peppe addestra cani per combattere, Francesco è tormentato da un errore del passato .

Falchi è il quinto film del regista Toni D’Angelo, figlio del cantante Nino che ha scritto le musiche per il suo film, a cui partecipano anche Stefania Sandrelli e Pippo Delbono nei panni del commissario di polizia Marino, perseguitato da un’inchiesta giudiziaria che lo spinge verso il baratro: «È vittima di un meccanismo, anche di comunicazione, che vuole assolutamente la vittima, il sangue» dice Cerlino.
Il film mostra una prospettiva capovolta della Napoli che siamo abituati a vedere: la camorra non c’è, e i protagonisti sono due poliziotti.
Toni D’Angelo: A Napoli non esiste solo la criminalità che di solito si racconta, e non solo lì esistono i criminali. Questo non è un film su Napoli, piuttosto vi è ambientato: la città è una scenografia che abbiamo utilizzato anche ricostruendone la geografia, lavorando molto sul concetto di teatralità. La storia è un pretesto per raccontare l’essere umano, l’amicizia, la fedeltà e il tradimento. Sono elementi universali della narrazione, si ritrovano nella tragedia greca, nelle opere di Shakespeare.
Fortunato Cerlino: Falchi è la storia di due uomini messi di fronte al loro destino e alle loro ombre in una situazione estrema. Napoli in questo è una compagna di lavoro ideale: è una città universale, che non fa sconti, dove tutto – l’amore, la morte, la violenza, la poesia, la passione – viene portato all’estremo.
Quali sono stati i punti di riferimento nel dare vita a questo poliziesco?
TD: Il riferimento più importante è il cinema di Hong Kong che considero uno dei più liberi che ci siano: con la libertà cioè di far ridere anche in un poliziesco, o di spingere all’inverosimile le scene d’azione come le sparatorie. Al genere noir o thriller se ne mescolano altri. Ho sempre trovato più «significati» in film così liberi che in tanti lavori deliberatamente politici. Come nei miei film precedenti poi ho cercato di mantenere un tono rarefatto mostrando personaggi in difficoltà con la vita.

In che modo ha lavorato con le musiche di Nino D’Angelo?
TD: Avendo scelto di trattare Napoli come una scenografia sentivo la necessità di inquadrarla senza utilizzare stereotipi come il mandolino, il vesuvio eccetera. Le musiche di mio padre mi hanno permesso di arrivare a questo risultato; lui è un personaggio importante della «napoletanità», ne è maschera e icona. Inoltre la sua colonna sonora ci permetteva di lavorare sul contrasto tra una musica melodica e melodrammatica e il poliziesco.

«Falchi» è un film di genere nel panorama di crisi del cinema italiano.
TD: È da quando faccio cinema che sento parlare di crisi. In realtà vedo che ultimamente c’è il coraggio da parte di molti produttori di tornare ai generi. Fino a poco tempo fa però proporre a una produzione un noir significava ricevere un rifiuto nella convinzione che con il noir, a differenza che con la commedia, non si fanno soldi. Io sono stato molto fortunato a incontrare Gianluca Curti e Gaetano Di Vaio (produttori del film, ndr), che non mi hanno imposto nulla.
FC: Mi piacerebbe che il manifesto si facesse portatore di una domanda per me molto importante: siamo sicuri che la cultura debba essere solo oggetto di mercato? Il nostro Paese è la patria di tanti maestri del cinema, ma gli altri ci superano perché hanno delle politiche culturali molto più avanzate delle nostre. La prova del botteghino va bene, ma serve anche incentivare dei lavori che non debbano rispondere alle logiche di mercato. Se la cultura viene messa sui banchi del supermercato non potrà mai essere dirompente, anticonvenzionale, proporre un mondo diverso da quello che già conosciamo.

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