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Tomihiko Morimi, vagabondaggi fantastici

Tomihiko Morimi, vagabondaggi fantastici

Intervista Lo scrittore giapponese di letteratura fantastica racconta il suo lavoro e la cartografia immaginifica della sua Kyoto

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 14 settembre 2024

Abbiamo dialogato con Tomihiko Morimi, scrittore di letteratura fantastica a noi caro ma purtroppo ancora poco noto in Italia, dato che a oggi, nella nostra lingua, sono disponibili solo due suoi libri: Penguin Highway, uscito nel 2018 per Kappalab, e Tatami Galaxy, uscito quest’anno per HarperCollins.
Con lui abbiamo parlato della sua opera, focalizzando l’attenzione su alcuni aspetti importanti, compreso il suo rapporto con Kyoto, città che in molte sue storie ci invita a «immaginare» attraverso atmosfere fantastiche e in situazioni alquanto uniche, ricche di stile e di umorismo.

Lei ha iniziato la sua carriera nel 2003 con il romanzo «Taiyo no to» (La torre del sole), libro tradotto in inglese ma non ancora in italiano. Ci potrebbe raccontare brevemente com’è diventato uno scrittore e che tipo di scrittore è Tomihiko Morimi per un pubblico come quello italiano che la conosce ancora poco? E che genere di opere scrive?

A quel tempo ero uno studente dell’Università di Kyoto. Ero confuso circa il percorso scolastico da seguire, perciò per un anno ho smesso di seguire i corsi ed ho girovagato in vari luoghi. Sono stati giorni in cui ero terribilmente depresso. In quel frangente mi è venuto in mente di scrivere un romanzo dove protagonista fosse uno studente che si trovasse nel mio stesso stato d’animo. È stata la prima volta in cui ho scritto un’opera di sapore umoristico, e così è nato Taiyo no to. L’anno seguente il romanzo ha vinto il Japan Fantasy Novel Award; perciò, mi sono ritrovato ad essere uno scrittore professionista prima ancora che me ne rendessi conto. Visto che nel nome del premio c’è il termine «fantasy», penso di potermi ritenere un autore di questo genere letterario.

Ha un sistema per la stesura delle sue opere? Ad esempio, ha già in mente da subito la storia, oppure parte da una particolare scena o evento per poi costruire tutto in un secondo tempo? Come costruisce invece i suoi personaggi? Ad esempio, per una figura affascinante come Benten di «Uchoten kazoku», si è ispirato a donne reali o è tutto frutto della sua immaginazione?

Dal mio debutto come scrittore sono ormai trascorsi vent’anni, ma ancora adesso non nutro particolare fiducia nel mio modo di scrivere. Mi capita, quando trovo alcune immagini che mi affascinano, di mettermi a scrivere di getto sul momento, e poi solo in un secondo momento di pensare alla storia completa. Altre volte, all’opposto, succede che scriva nel dettaglio la struttura del romanzo. Però, nel mio caso, se eccedo troppo nel concentrarmi su di una stesura preparatoria spesso poi finisco per trovarmi in un vicolo cieco.
Finché non inizio a scrivere realmente il libro non ho alcuna certezza!

Lo stesso può dirsi per i personaggi che compaiono nei miei lavori. Se li creo fin dal principio hanno la tendenza a risultare piatti e superficiali. È grazie allo sviluppo della narrazione e all’interagire dei vari personaggi che riesco gradualmente a definirne chiaramente i contorni e a fargli, così, prendere consistenza. Ad esempio, in Uchoten kazoku la figura di Benten non ha un modello reale, ma si è formata in modo naturale man mano che la storia avanzava. Credo che sia proprio per questo che risulta tanto viva.

Ci può raccontare il suo rapporto con la città di Kyoto? Ha un ruolo centrale in molte delle sue opere.

Sì, spesso come luogo in cui ambientare i miei romanzi ho scelto Kyoto. È la città dove ho trascorso la mia giovinezza e i suoi paesaggi mi sono molto familiari. Comunque, la ragione principale è che per me è «comodo» ambientare qui i romanzi. Dato che utilizzo uno stile di scrittura un poco arcaico, se le mie storie non si svolgessero in un luogo ricco di storia come Kyoto le frasi che utilizzo non si adatterebbero altrettanto bene. Kyoto è una grande città, perciò un altro punto importante è il fatto che ci vivono persone che hanno alle spalle le più disparate storie. Inoltre, elemento ancora più essenziale, è che anche vicende fantastiche stravaganti come quelle che scrivo io nel panorama di Kyoto divengono del tutto accettabili, senza che suscitino un senso di disarmonia. Forse per le persone che vivono all’estero è un po’ difficile rendersene conto, ma per i giapponesi questa città abbraccia un certo tipo di atmosfera fantastica. In un antica capitale dove più strati di storia si sovrappongono tra loro non è strano che avvengano eventi misteriosi. Anzi, c’è proprio l’aspettativa segreta che essi accadano!

In molte sue storie ci sono elementi fantastici, come i mondi paralleli di Tatami Galaxy o di Penguin Highway, oppure le creature del folklore sovrannaturale giapponese come «tanuki» e «tengu». Qual è il suo punto di vista sulla relazione tra fantastico e reale nella sua letteratura e in quella generale, giapponese e no?

Io mi considero uno scrittore di «fantasy». Scrivere questo genere letterario significa entrare nel mio mondo di fantasticherie attraverso delle frasi. Visto che si tratta di un universo, per così dire, al centro della mia anima, sia i fatti «che possono accadere realmente» che quelli «che non possono accadere nella realtà» coesistono in maniera equivalente. Perciò, in fondo non c’è alcun bisogno di fare una distinzione tra «fantasia» e «realtà». Comunque, quando si comincia a scrivere un romanzo si crea all’interno di esso qualcosa di simile a una promessa di coerenza. Per di più, essendoci anche l’esigenza della presenza di una capacità di persuasione nei confronti dei lettori, non è che si possa narrare liberamente qualsiasi cosa. Piuttosto, la forza del fantasy sta proprio nel fatto che, nonostante si dovrebbe poter scrivere quello che si desidera, ciò non sia effettivamente possibile.

Da molte sue opere sono state tratte delle serie e dei film animati. Lei ha collaborato in qualche modo alla loro fase di produzione? Se sì, ci può raccontare qualcosa? In generale, ci piacerebbe avere da lei un commento sulle animazioni realizzate a partire dalle sue opere.

Per quanto riguarda la produzione degli anime, una volta che ho affidato i miei lavori allo staff (certo, concederli è una decisione che non prendo alla leggera) a meno che non accada qualcosa di serio mi astengo dall’intervenire. Dal momento che ritengo mio solo il romanzo, ad avere la responsabilità della versione visiva sono i registi. Quindi, se gli anime tratti dai miei lavori riescono male, be’, la colpa è da attribuire a loro e non a me.

Non penso che i miei romanzi siano facili da trasporre in animazione, dato che sono scritti dando la priorità alla vividezza delle immagini e al gusto delle frasi. In effetti, si tratta di un mio mondo personale dove spesso mancano descrizioni e spiegazioni e dove la storia si frantuma con facilità. A voler metter di loro iniziativa mano a opere così complicate sono, forse, i registi particolarmente abili. Ho la sensazione che il segreto per cui tutte le versioni animate tratte da mie opere siano di splendida qualità sia da ricercarsi esattamente in quest’ultimo punto.

Ha avuto occasione anche di scrivere una versione in lingua moderna della «Storia di un tagliabambù», ossia quella che probabilmente è stata la prima opera di narrativa giapponese. Com’è stato confrontarsi con un testo di letteratura così importante?

Quando per l’Opera completa della letteratura giapponese ho tradotto in giapponese moderno Storia di un tagliabambù ero molto nervoso. A pensarci ora, forse sono stato persino un po’ troppo serio, ma non sapevo bene fino a che punto potessi spingermi nel superare i limiti. Se devo parlare delle emozioni che ho provato traducendo questo testo, direi che è stato come se fosse un’opera scritta da me. Una misteriosa ragazza di nome Kaguya, gli uomini tormentati da un amore verso di lei non corrisposto, la commedia farsesca e la grandiosa avventura, e poi il suo fantastico misterioso… Tutti elementi che rientrano nel mio repertorio! In realtà, capovolgendo causa ed effetto, probabilmente sono io quello ad essere stato grandemente influenzato dalla Storia di un tagliabambù.

In ultimo, una domanda legata all’Italia. Conosce la letteratura italiana? In generale, c’è qualcosa che le interessa nella cultura italiana o dell’Italia in relazione al suo lavoro?

Immediatamente prima della stesura di Taiyo no to, quando, smesso di andare all’università, gironzolavo senza meta, sono stato per un mese a Londra per perfezionare il mio inglese. Nella stessa sistemazione in famiglia c’era uno studioso di letteratura italiano la cui specializzazione era la Divina Commedia di Dante Alighieri. Con l’occasione, dopo essere rientrato in Giappone ho provato a leggerla, ma devo ammettere che ho dovuto arrendermi e ancora ora non sono riuscito a farlo.

Di Dino Buzzati, invece, ho letto sia diversi romanzi che racconti, come Il deserto dei Tartari e Il segreto del Bosco Vecchio. Ho trovato particolarmente pauroso il racconto Qualcosa era successo. È un’opera che non posso dimenticare! Quando osservo il mondo attuale mi viene sempre in mente. Poi, anche il romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino mi ha lasciato una profonda impressione. Pure io con Nettai (Tropici) ho provato a scrivere «un romanzo riguardo un romanzo», ma se avessi letto molto prima Se una notte d’inverno un viaggiatore probabilmente Tropici avrebbe avuto una forma un poco diversa.

***

Kyoto: appunti per una immersione nella città

Fra le città giapponesi, Kyoto è senza dubbio una di quelle con l’identità storica più forte. Per questo, per scoprirne i lati nascosti, è necessario un esercizio di immaginazione appropriato, che può essere sulla falsariga di quello che fa Sigmund Freud con Roma in uno dei suoi libri più belli, Il disagio della civiltà. Qui, il padre della psicanalisi pone la possibilità di pensare la città eterna come un’entità capace di conservare, attraverso una sorta di paradossale sovraimpressione temporale, il passato urbano distrutto dell’urbe nel paesaggio cittadino sopravvissuto fino ai nostri giorni. Come chiosa lo stesso Freud, si tratta di un esercizio simile a una mera fantasia, certamente ai limiti dell’assurdo, ma utile a far capire «quanto siamo lontani dal poter affrontare la peculiarità della vita psichica attraverso una rappresentazione efficace».

Ora, lo stesso discorso può valere per Kyoto che, come Roma, è città in cui il passato occultato dall’evoluzione storica può aleggiare ovunque, concretizzandosi in impressioni parziali che oggi potremmo far tranquillamente rientrare nell’ambito del fantastico. Si può pensare a qualcosa del genere fin dalla sua fondazione e designazione come capitale, nel 794, inizialmente con il nome di Heian-kyo. Fra i motivi che fecero ricadere sullo spazio dell’odierna Kyoto la scelta di dove situare il nuovo luogo del potere sembra ci fosse anche la geomanzia cinese del Feng Shui. Nello specifico, il fatto che un tale territorio rispecchiasse una topografia ideale, protetta da confini geografici specifici in cui era possibile ritrovare l’azione dei quattro animali guardiani della mitologia cinese: il drago a est, l’uccello vermiglio a sud, la tigre bianca a ovest, e la tartaruga nera a nord.

Sulla scorta di questa suddivisione, si potrebbe quindi passare a fare riferimento a ricerche come quelle dell’antropologo culturale e studioso di folklore giapponese Kazuhiko Komatsu. In un suo libro del 2002, Kyoto makai annai (traducibile in italiano come «Guida al mondo magico di Kyoto»), Komatsu si dedica infatti proprio a sondare la connotazione misteriosa dell’antica capitale nipponica attraverso una ricognizione di luoghi – e non solo – che possono fornire sfaccettature fantastiche nascoste alla luce del sole. Fra gli esempi curiosi campionati dall’antropologo giapponese si può menzionare, per esempio, quello del tempio buddhista di Yatadera. Situato in una zona commerciale della città, centrale e molto frequentata, si tratta di un luogo consacrato a un bodhisattva, Jizo, che è una figura protettrice di determinate categorie di esseri umani. Si tratterebbe però di un tipo particolare di Jizo, perché all’origine sembra esserci un viaggio all’inferno da parte di un monaco, un viaggio in cui questi finisce per incontrare la figura protettrice in questione, che ai suoi occhi, dapprima acquista le sembianze di un monaco intento a soffrire al posto di altri esseri umani. A Yatadera, l’immagine del Jizo si presenta, per l’appunto, incastonata da fiamme.

Infine, certe immagini in movimento – cinema dal vivo e animazione – possono aiutare a far percepire la dimensione fantastica di Kyoto simile a quella di un gioco di specchi. Per esempio, è così nel primo episodio del film Kwaidan (1964) di Masaki Kobayashi, in cui la presenza dell’antica capitale giapponese è ridotta a un mero spazio domestico. In questo scenario, l’amore si mescola all’orrore, arrivando a farci mettere in dubbio la percezione dello stesso spazio e dei suoi protagonisti. Ma si possono citare anche le trasposizioni in due serie televisive anime (2013 e 2017) di Uchoten kazoku, una delle opere più belle di Morimi. In una Kyoto brulicante di vita, la narrazione delle vicende ruota attorno a una famiglia di Tanuki, i celebri cani procione capaci di trasformarsi in qualsiasi cosa, umani compresi. Qui, la loro esistenza riflette quella della città, in cui niente – in fondo – è come appare.

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