Togliatti, uomo e statista non solo dirigente del Pci
Il sessantesimo della morte di Togliatti è trascorso senza importanti celebrazioni. Corrado Morgia – negli anni Ottanta direttore del centro studi delle Frattocchie, un tempo scuola quadri del Pci – lascia in eredità una imponente biografia del «migliore» – più di 500 pagine per raccontare la vita del Togliatti «democratico», quello che va dalla Resistenza alla sua morte nell’agosto del 1964 (Togliatti. Una biografia (1944-1964), Bordeaux, pp. 522, euro 28). Vengono selezionati e discussi alcuni temi: la svolta di Salerno, «l’indimenticabile ’56», il centro-sinistra; e poi ancora il ruolo di Gramsci nella costruzione del comunismo italiano, il rapporto di Togliatti con la cultura nazionale, il memoriale di Yalta. I temi consueti del Togliatti politico (si vedano le biografie di Bocca e Agosti, e più di recente Fiocco), che mettono in ombra (ancora una volta, si potrebbe aggiungere) il Togliatti «uomo», le vicissitudini della sua vita personale – questioni queste trascurate dalla storiografia e volgarizzate dalla polemica anticomunista.
EMERGE LA FIGURA di un politico che è soprattutto uno statista prima ancora che il capo della classe operaia italiana e dirigente del movimento comunista internazionale. È una versione in qualche modo corretta, ma che implica discrete conseguenze sul piano storiografico e interpretativo. In primo luogo, quella di certificare il riformismo comunista – ancorché «di struttura» – cosa sin troppo evidente oggi ma problematica nel passato che rievoca Morgia. La priorità dell’interesse nazionale – che l’autore attribuisce all’azione di Togliatti – mal si concilia con quell’interesse di classe che animava vaste porzioni del partito – non per forza le porzioni più arretrate o ideologicamente intransigenti. E che forse animava Togliatti stesso, pur nelle sue prudenze. Insomma, attraverso la ricostruzione di Morgia prende forma una versione amendoliana della storia del Pci – si vedano le continue allusioni su Secchia – che è pienamente legittima purché sia esplicita.
SOPRATTUTTO, si pone grande enfasi nel rigettare il carattere della doppiezza che avrebbe animato il partito e in primo luogo l’azione di Togliatti. Certamente quello della doppiezza è stato un cavallo di battaglia anticomunista delle destre di ogni risma, da rifiutare nel senso truce e fantasioso presentato dalla storiografia complottistica, fatta di apparati clandestini e «gladio rosse» pronte alla rivoluzione in armi.
Ma se al comunismo italiano degli anni Cinquanta e Sessanta sottraiamo recisamente tale carattere, rivendicando la natura esclusivamente «democratica» di quel progetto politico (che sicuramente fu anche democratico), cosa lo distingue storicamente da quella socialdemocrazia considerata fino al 1989 alla stregua di una quinta colonna incistata nel movimento operaio?
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