Toghe, panico nel governo per un’intervista smentita
Giustizia Il ministro Orlando: «Chiarimenti» sulle parole del giudice Morosini. «Il Foglio» riporta il colloquio con il titolo «Renzi va fermato». Ma a preoccupare è il referendum di ottobre. E il consigliere ribadiva la posizione di Md
Giustizia Il ministro Orlando: «Chiarimenti» sulle parole del giudice Morosini. «Il Foglio» riporta il colloquio con il titolo «Renzi va fermato». Ma a preoccupare è il referendum di ottobre. E il consigliere ribadiva la posizione di Md
È ancora mattina quando il guardasigilli Orlando, previa consultazione con il capo del governo, si attacca al telefono e chiede al vicepresidente del Csm Legnini «un incontro formale» per discutere dell’intervista rilasciata dal consigliere togato di Md Piergiorgio Morosini, che campeggiava con titolo strillato sul quotidiano Il Foglio. Morosini, in quell’intervista, andava davvero giù a ruota libera, tanto da autorizzare il sospetto che le cose siano andate proprio come il consigliere stesso, smentendo l’intervista, afferma: cioè che una chiacchierata informale, camuffata da «inchiesta su Magistratura democratica» sia stata poi trasformata dal quotidiano, tanto renziano oggi quanto berlusconiano ieri, in intervista. Trattasi di una pratica decisamente scorretta ma adottata a volte dalle belle penne d’assalto. E’ difficile credere che altrimenti Morosini si sarebbe lasciato andare a commenti tanto duri su due colleghi come Cantone e Gratteri, magistrati di riferimento per Renzi, bollati come «uomini Mondadori». E’ invece probabile che in ogni caso avrebbe attaccato con le stesse parole, o con formula appena più leggera, la riforma istituzionale: «Bisogna guardarsi dal rischio di una democrazia autoritaria». E’ la posizione di Md.
Come segnale diplomatico, la richiesta di incontro formale è il messaggio più duro che il governo potesse lanciare. Legnini se ne accorge e, di fronte al plenum del Csm, dopo un giro di telefonate tra lui e Mattarella e tra Renzi e lo stesso capo dello Stato, va giù con l’accetta: «Noi pretendiamo rispetto delle nostre prerogative e funzioni, ma allora dobbiamo innanzitutto assicurarlo noi». Va da sé che le critiche ai colleghi sono «inaccettabili» e come ulteriore segnale di severità il vice annuncia che metterà a parte della discussione anche il presidente del Csm, nonché della Repubblica. Di sfuggita Legnini definisce «non opportuno» che i membri del Csm si impegnino nella campagna referendaria e nessuno, nell’indignazione montata ad arte dal fronte renziano, gli chiede ragione di un’affermazione tanto abnorme. Perché mai i consiglieri non dovrebbero fare campagna, per il sì o per il no, a seconda delle loro sempre legittime convinzioni?
L’accusato smentisce. Si dice «ferito». Assicura che il suo pensiero è stato snaturato. In effetti lo stesso direttore del Foglio, Claudio Cerasa, ammetterà che l’elemento più deflagrante, il titolo a effetto «Renzi va fermato», è farina del suo sacco. Magistratura democratica tenta di chiudere l’incidente: «La tempestiva smentita di Morosini» garantisce che quello non è il suo pensiero, tanto meno della corrente. Ma ormai l’onda è montata e non c’è modo di fermarla. Il primo presidente della Cassazione Canzio intravede una «delegittimazione generale dei rappresentanti di altri poteri dello Stato» che «lede l’immagine di indipendenza della magistratura e incrina la fiducia dei cittadini nella giustizia». Addirittura. Se questa è la reazione di un alto magistrato, figurarsi quella dei descamisados di Matteo. Il responsabile giustizia del Pd, Ermini, confessa che avrebbe «terrore a farmi giudicare da uno così». Appena più sobrio Walter Verini, voce del capo in commissione giustizia alla Camera: «Un infortunio serio. Parole da militante propagandista».
La reazione forsennata, a volte sconfinante nella tentazione di vietare ai magistrati di assumere posizioni in merito a scelte politiche complessive, rivela quale sia il vero incubo di Renzi e del Pd in questi giorni. Lo stato maggiore renziano è convinto che quella del presidente dell’Anm Davigo, due settimane fa, sia stata una «chiamata alle armi» e che l’obiettivo sia il referendum di ottobre. Anche se mai lo ammetterebbero in pubblico, moltissimi Pd di confessione renziana sono certi che la moltiplicazione delle indagini e degli arresti a carico di amministratori dem siano la risposta a quell’implicito appello. Però si rendono conto che reagire e andare allo scontro diretto sarebbe, almeno fino a dopo il referendum, quanto di più controproducente. Di conseguenza l’ordine del capo è una clamorosa retromarcia. Lo scontro con la magistratura va evitato a tutti i costi. Persino a fronte di un’ordinanza che dire discutibile è poco, come quella che ha portato all’arresto del sindaco di Lodi, bisogna evitare ogni reazione e insistere nel confermare la propria piena solidarietà con le toghe. Per questo proprio Renzi, mercoledì, ha bloccato la campagna di Fanfani contro i pm di Lodi nel Csm.
Al contrario è d’uopo porgere l’altra guancia, stringere i denti e rivendicare le leggi severe varate sin qui, come Renzi ha preso a fare quotidianamente. Ed è stato tentato di andare anche oltre, sino a ipotizzare un accordo con l’M5S sulla prescrizione, in omaggio non a Grillo, ma a Davigo. Peccato che con quegli «inaffidabili» dei pentastellati fosse troppo rischioso…
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