Non è semplice soppesare il ruolo delle donne nelle vicende figurative cinquecentesche. I tentativi odierni di parificare l’apporto dei due sessi in epoche diverse dalla nostra non possono che scontrarsi con la realtà storica. Erano molti, e andrebbero messi in evidenza, i motivi per cui una donna non poteva nemmeno aspirare agli stessi risultati di un uomo. Di fronte a questi, non si può certo credere fosse questione di attitudini legati al genere.
È un tema interessante a cui si agganciano una quantità di altri argomenti: la composizione della società, il peso della religione, le forme dell’erotismo, ma anche il ruolo attivo delle donne come committenti, grazie a poteri acquisiti per diritto di nascita o come propagatrici di pensieri nuovi attraverso l’autorevolezza culturale. Penso a Isabella d’Este, Tullia d’Aragona, Vittoria Colonna o Veronica Gambara, ma anche alla badessa Giovanna Piacenza, trasformata da Correggio in Diana nella Camera di San Paolo.
In un gioco di specchi, spesso sono state e sono storiche dell’arte a impegnarsi su questi temi, e almeno dagli anni settanta del secolo scorso. Non è infatti solamente una questione di femminismo o ideologie, pesa anche il punto di vista dell’osservatore. Lo dice chiaramente Sylvia Ferino-Pagden in una delle prime pagine del libro che raccoglie gli studi legati alla mostra Tiziano e l’immagine della donna nel Cinquecento veneziano (a cura di Sylvia Ferino-Pagden, Francesca Del Torre Scheuch e Wencke Deiters, a Palazzo Reale a Milano fino al 5 giugno): l’erotizzazione del corpo femminile, e quindi il dominio dell’uomo sulla «donna oggetto», ha nel passato recente condizionato anche la lettura di quadri antichi, perché lo sguardo degli studiosi è stato inevitabilmente subordinato a preconcetti legati ai loro modelli educativi. Per esempio, le donne ritratte a seno nudo, così diffuse nella pittura veneziana del XVI secolo, erano identificate come cortigiane o amanti, non come mogli.
Tutt’ora l’argomento continua a essere intricato, generando diverse possibilità interpretative, anche perché si scontra con un presente in cui si fa ancora fatica a superare vecchi schematismi.
I dipinti concentrati per la mostra di Milano – tra cui molti capolavori – finiscono per parlarci tanto (o più) dell’oggi quanto del passato. In gran parte provengono dal Kunsthitorisches Museum di Vienna, che ha ospitato la prima e più ricca tappa della mostra, e della cui pinacoteca Ferino-Pagden è stata direttrice. Il materiale per qualche riflessione non manca, bisogna solo cercare di non cadere in letture troppo superficiali, e in questo senso i saggi in catalogo (Skira, pp. 374, € 42,00) possono aiutare.
Le donne, nella Venezia del Cinquecento, non erano tutte uguali, avevano però in comune una condizione quasi sempre incardinata al ruolo di spose. Quindi la dote, richiesta in ogni ceto, diventava uno strumento giuridico e sociale, causando in molti casi drammi e crisi economiche familiari. Solo raramente poteva essere piegata all’interesse femminile. In alternativa – e in mancanza di liquidità – la via per le nubili era quella del convento. Fuori dalla norma c’era però una grande varietà: i numerosi figli naturali sono una delle spie che dimostrano come la vita non soggiace mai del tutto alle imposizioni morali.
Bisogna perciò guardare ai ritratti femminili di questi anni con queste premesse. E nell’alveo del matrimonio vanno probabilmente ricondotti anche i ritratti di giovani che denudano il seno, dal prototipo enigmatico della cosiddetta Laura di Giorgione in qua. Sono spose o promesse spose che richiamano i concetti di voluptas (la voluttà come soddisfazione di impulsi tanto carnali che spirituali) e virtus (morale e comportamentale), cioè gli ingredienti essenziali per un matrimonio felice. Un «misto d’incitamento tra il diletto di virtù, e di lascivia» – dirà Boschini – che Tiziano sapeva interpretare magnificamente, facendone una delle chiavi del proprio successo.
In questi dipinti niente è casuale: i gesti, i vestiti, l’acconciatura, i colori, i gioielli, gli sguardi. Non tutto è però così facilmente interpretabile: i codici comunicativi che allora dovevano essere palesi, oggi sono in qualche caso indecifrabili.
Questi quadri avevano spesso anche delle coperture, cioè dei dipinti con soggetti innocui, magari simbolici, che celavano il ritratto creando una vera e propria confezione. Sono oggi perlopiù perduti, o non se ne riconosce la funzione originale. Nei documenti erano chiamati in qualche caso «timpani». In mostra è esposto il freschissimo Amorino con tamburello del Kunsthistorisches. Un piccolo quadro che poteva essere la copertura per un ritratto dipinto intorno al 1510, o poco dopo (come la Violante, in mostra però solo a Vienna). Tiziano avrebbe così sfruttato il doppio senso del termine timpano, che è anche il nome di alcuni strumenti musicali a percussione come, appunto, il tamburello, lasciando così un piccolo enigma che si scioglie, per chi può intenderlo, in una piccola, giocosa riflessione sul proprio mestiere, sulla pittura che crea una realtà alternativa.
Secondo Vasari, Tiziano aveva ritratto tutte le aristocratiche veneziane. Restano però pochissimi dipinti con queste nobili, alcuni eseguiti a distanza, e idealizzando, com’è per la «mostruosa Marchesa di Mantova la quale ha denti de hebano e le ciglia di avorio, dishonestamente brutta», almeno stando al caustico Aretino. Tiziano la ritrae dandole quarant’anni meno, rendendola un’icona di bellezza ed eleganza giovanile. Isabella non poteva ovviamente che esserne compiaciuta: l’immagine lasciata ai posteri era un’effigie di grazia e virtù; una rappresentazione dell’anima, non del corpo.
A Venezia, per la generazione di Tiziano, l’amore e la bellezza erano un’espressione della perfezione del creato. L’idillio amoroso era ritmato da versi poetici, ma anche dai richiami del corpo. La pittura metteva in scena gli uni e gli altri, intrecciando coppie, o triangoli, in dipinti che verosimilmente si legavano a matrimoni avvenuti o in procinto di essere celebrati, tra scambi di doni, sguardi, testimoni di nozze, promesse, tensioni erotiche e diverse ambiguità, come ne Gli amanti di Paris Bordon di Brera.
Il dialogo tra i personaggi sottintendeva a volte significati reconditi, dove la bellezza femminile poteva acquisire anche un ruolo simbolico, o le donne finivano per incarnare un sentimento, o essere il soggetto dell’ispirazione poetica, come nel Suonatore di ghironda del raro Domenico Capriolo, circa 1520, o Lucrezia e suo marito di Tiziano, scelto come immagine guida dell’esposizione. Quest’ultimo è un amalgama di turbamenti erotici e sfide morali che attualizza la storia dell’eroina antica. Il corpo voluttuoso della donna è stato modellato con una materia pittorica sensuale e palpitante, ma ancora leggera, ben diversa dall’amalgama di colore – quello che per Aretino «fa battere i polsi» – del Tiziano maturo, o dall’estremo Tarquinio e Lucrezia, esposto a pochi metri.
Il corpo delle eroine e dee come Venere può essere portatore sano di «vaghezza», «grazia», «candore», assecondando un ideale di perfezione petrarchesco, oppure caricarsi di erotismo, vezzosità, con le «poppe» rosee che fan ribollire il sangue o, ancora, di umorismo, come nel Marte e Venere sorpresi da Vulcano di Monaco. Un’opera che si rivede, ogni volta, come un capolavoro di senso, di pittura, a cui non manca nemmeno una dose di trivialità da Casa Vianello. Alla fine si chiude così, ragionando su come le figure femminili possano condensare concetti astratti, universali, personificando Sapienza, Pace, Bellezza, e persino la città di Venezia. Si rientra nei ranghi: con la Controriforma per parlare di matrimonio non si usano più ritratti, ma storie antiche, e a scoprire il seno non è la fidanzata, ma Europa, che Veronese addobba elegante come una sposa, mandandola verso il talamo nuziale cavalcando Giove, il padre degli dei trasformatosi in toro per accondiscendere alle proprie pulsioni sessuali.