Nel Seicento i contemporanei riconoscevano una prima e una seconda maniera in tanti pittori, tra i quali Ribera, Guercino e Guido Reni; in quest’ultimo, in realtà, alcuni intendenti arrivano a individuare anche un’«ultima maniera», scandendo il suo percorso in tre fasi. Un secolo prima Giorgio Vasari, in visita a Venezia nel 1566, così avrebbe descritto nella seconda edizione delle Vite (1568), le opere che aveva potuto vedere allora nello studio di Tiziano a Biri Grande (non lontano dalle Fondamenta Nove): «condotte con colpi, tirate via di grosso e con macchie, di maniera che da presso non si possono vedere e di lontano appariscono perfette», parlando poi esplicitamente, a loro proposito, di un’«ultima maniera».

Vasari, nel suo precedente soggiorno veneziano del 1541-’42, aveva già avuto modo di vedere i capolavori del giovane e maturo Tiziano, a partire dall’Assunta dei Frari, e il contrasto con le ultime tele licenziate dal Vecellio doveva averlo colpito: «Ma è ben vero che il modo di fare che tenne in queste ultime è assai diferente dal fare suo da giovane: con ciò sia che le prime son condotte con una certa finezza e diligenza incredibile, e da essere vedute da presso e da lontano».

Vasari era rimasto ammirato nel trovare il pittore, «ancorché vecchissimo fusse, con i pennelli in mano a dipignere». Quanti anni avesse davvero Tiziano nessuno pare lo sapesse: Lodovico Dolce gliene dava ventiquattro in più rispetto a quanti gliene dava Vasari; eppure entrambi lo conoscevano personalmente. La data di nascita del maestro rimane ancora oggi sconosciuta, ma è certo che egli si fosse spesso aumentato gli anni, giocando la parte del «vecchissimo» artista prima del tempo, tanto da permettersi di lavorare con sovrana sprezzatura, già al di là delle regole che potevano valere per gli altri. Vasari, peraltro, non sapeva che a Tiziano rimanevano allora da vivere ancora dieci anni, e che quel gigante non avrebbe mai posato i pennelli, spingendosi fino ai confini della pittura figurativa, precorrendo tutto e tutti, da Velázquez fino a Turner (e forse a Bacon).

Lo sceltissimo nucleo di pittura veneziana del Rinascimento custodito alla Galleria Borghese (Antonello, Carpaccio, Bellini, forse persino Giorgione, Veronese…) trova il suo coronamento, come tutti sanno, nel celeberrimo Amor sacro e Amor profano del 1514-’15. Di fronte, suo perfetto contraltare, è il Venere che benda Amore del 1565 circa: fino almeno dal 1613, da quando vennero cantati da Scipione Francucci, prima ancora che la villa Borghese fosse terminata (si trovavano allora nel palazzo di Borgo), quei due capolavori del Tiziano maestro delle allegorie d’amore sono stati uno dei maggiori vanti della collezione del cardinale Scipione.

Attraverso di loro, condotti per mano dalle dottissime pagine degli Studies in Iconology di Erwin Panofsky (1939), tra Venere sacra e Venere mondana, tra Eros e Anteros, nella sala XX della Galleria è costantemente messo in scena un confronto da manuale fra il Tiziano della prima, già piena maturità, e quello dell’ormai «vecchissimo» pittore che Vasari era andato a trovare nel 1566. Ora, e fino al 18 settembre, in occasione della preziosa mostra-dossier Tiziano Dialoghi di natura e di Amore (catalogo Arte’m, pp. 63, euro 9,00), a quelle due tele è accostato il misterioso, onirico, inquietante Ninfa e pastore concesso dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, opera tardissima, estrema (1570-’75 circa). In tre fotogrammi, il lunghissimo percorso artistico di Tiziano.

In realtà, i fotogrammi sono quattro. Il Ninfa e pastore mantiene questa intitolazione generica e insoddisfacente perché vani fino a oggi sono stati i tentativi di una più precisa identificazione iconografica dei protagonisti (Dioniso e Arianna? Dafni e Cloe? Angelica e Medoro?); anche l’ipotesi del più attrezzato Panofsky (Paride ed Enone) non ha incontrato fortuna. Ma certo il tema ultimo di questa tela sensazionale è l’immersione delle due figure nel paesaggio, un tema cioè eminentemente giorgionesco, quello dell’idillio bucolico.

Tiziano era partito da quella cultura, mettendola da subito in discussione, con il pessimismo delle Tre età dell’uomo (1512-’14 circa), un dipinto oggi a Edimburgo, che presenta in primo piano quel medesimo motivo dell’incontro amoroso tra uomo e donna in un paesaggio, incontro accompagnato e favorito dalla musica: se nel Ninfa e pastore è solo l’uomo ad avere un flauto in mano, qui la donna ne ha addirittura due (il secondo è un’evidente allusione erotica). In quell’allegoria giovanile Tiziano metteva in scena la fine delle illusioni della giovinezza, mostrando al centro un uomo anziano intento a meditare su dei teschi che si immaginano quelli degli amanti in primo piano: e da lì fino alla fine dei suoi giorni il maestro avrebbe portato avanti un discorso per immagini di rara coerenza, giusta la suggestiva interpretazione di Augusto Gentili.

L’eco della voce di questi, e delle appassionanti lezioni che teneva alla Sapienza tra anni ottanta e novanta, si sente distintamente al centro di queste quattro allegorie; curatrice della mostra è infatti Maria Giovanna Sarti, sua allieva, studiosa di Tiziano di lungo corso. A fare le veci della tela di Edimburgo, in dialogo con quella proveniente da Vienna, è in realtà una copia seicentesca custodita nei depositi della Borghese, ed esposta eccezionalmente in quest’occasione. Si tratta, sia detto per inciso, di una bella sorpresa per il pubblico, poiché la copia è di notevole qualità, un episodio importante della fortuna del Vecellio nel collezionismo romano, ed è forse riferibile al Sassoferrato, impegnato in un inedito e felice amalgama di Raffaello e Tiziano, di disegno e colorito.

Ma la star della mostra è il Ninfa e pastore, che fa richiama un altro passaggio di Vasari: «questo modo è stato cagione che molti, volendo in ciò immitare e mostrare di fare il pratico, hanno fatto di goffe pitture: e ciò adiviene perché, se bene a molti pare che elle siano fatte senza fatica, non è così il vero e s’ingannano, perché si conosce che sono rifatte, e che si è ritornato loro addosso con i colori tante volte che la fatica vi si vede». Il brano di paesaggio al centro e a destra, illuminato da lampi di fuoco, tradisce inequivocabilmente un lungo e forse incontentabile lavorio del pennello. Lavorio che, con buona pace di Vasari, più incline all’apprezzamento del primo Tiziano, è sempre splendido, visto da lontano, ma forse ancor di più se scrutato «da presso» come si può fare ora in mostra.