Al di là di una plaquette composta da appena undici poesie e pubblicata in appena cinquantadue esemplari (Le gambe del serpente, L’Arco Edizioni d’Arte, 1975), Tito Balestra è stato un poeta di una brevissima stagione, e di due soli libri: Quiproquo, uscito da Garzanti nel 1974, e Se hai una montagna di neve tienila all’ombra, uscito prima, in poche copie, nello stesso 1974 e poi, sempre da Garzanti, nel 1979. Entrambi erano introvabili da tempo, e dunque va reso merito alla Nave di Teseo per averli ora ripubblicati, in un volume unico (pp. 290, euro 20): ed è un merito da celebrare, perché questa nuova edizione ci restituisce praticamente nella sua interezza, per quanto così esigua, un poeta fra i più grandi in assoluto del nostro secondo Novecento.
Balestra era nato a Longiano, sulle colline intorno a Cesena, nel 1923; e a Longiano è morto, a soli cinquantatré anni, nel 1976, dopo aver vissuto a lungo a Roma. Era stato partigiano, e per un certo periodo, dopo la guerra, proprio a Longiano aveva ricoperto l’incarico di assessore e di vicesindaco.

A ROMA, dove si era trasferito per seguire i corsi del Centro di educazione professionale per assistenti sociali diretti da Guido Calogero e dove aveva conosciuto Anna Maria De Agazio, che sarebbe diventata sua moglie, perlopiù si era occupato d’arte, curando mostre presso la Galleria La Vetrina (in via del Babuino). A Roma aveva anche stretto amicizia con pittori e scrittori. Era una persona discreta, non gli interessava la ribalta. Oggi, prima di questa nuova edizione delle sue opere, era stato quasi dimenticato, nonostante il fatto che Elisabetta Sgarbi alcuni anni fa avesse intitolato un film a ciascuna delle sue due raccolte e che, più di recente, la rivista Laboratori critici gli abbia dedicato una retrospettiva.

ESSENDO COSÌ poche le sue poesie, menzionarne qui alcune a discapito di altre è molto difficile e perfino doloroso, perché si potrebbe dire che non c’è poesia, fra quelle che aveva pubblicato, che non sia perfetta e rivelatrice. E quindi, se è vero che le preferenze di ciascuno sono sempre il frutto anche di una geografia sentimentale, nel caso di Balestra questo è vero a maggior ragione. Ciò che si può aggiungere è che la sua poesia sembra retta da un criterio di equilibrio fra due registri, spesso mischiati e sovrapposti uno all’altro: uno più satirico (implacabile e fulminante, per rimandare a parole a suo tempo usate da Attilio Bertolucci), l’altro più dolce e malinconico, talvolta al limite della rassegnazione.
Un esempio del primo di questi due registri può essere dato dai versi di Parassita: «Eternamente loda/eternamente dice/rapidamente mangia/e posa ad infelice».

UN ESEMPIO DEL SECONDO è invece nei versi rivolti alla moglie, semplici nella forma com’è semplice il sentimento che incarnano, come può essere semplice l’amore: «Anna, ho comprato un pezzo di terra,/ho un cavallo, una frusta e sollevo la polvere/e chiamo il vicino e gli tocco la spalla/oppure un altro, un sogno più piccolo,/io e te insieme abitiamo una stanza/e abbiamo vetri contro il vento e la pioggia/e un cuscino un po’ grande che basta per due;/guardami in faccia ho gli occhi castani».
Ma sono solo esempi, appunto. E comunque esiste lungo tutte le poesie di Balestra, pur fra i due registri che le connotano, anche un elemento comune (oltre agli elementi formali): ed è un certo senso di saggezza che sempre ne promana. Ma è una saggezza mai moralistica, mai altezzosa: è una saggezza che Balestra non elargiva ad altri che a sé. E basterebbe leggere versi come questi: «Come un albero saggio/che non muore e non vive/sei d’ingombro a chiunque/la tua ombra non piace./Delicati di bocca/grassi bruchi ti spolpano,/è un piacere da saggi/il sentirsi mangiato».