Sono 1903 le opere di Mino Maccari conservate dalla Fondazione Balestra di Longiano. Un patrimonio inestimabile, soprattutto per capire quanto Tito Balestra (Longiano 1923-’76) abbia imparato da Maccari, fin dal suo arrivo a Roma nel 1946, frequentando La Vetrina di Chiurazzi in via del Babuino, quasi quotidianamente il suo studio, le gallerie dove esponeva e, pian piano, i suoi amici.

E quanto Maccari abbia tenuto in conto questa amicizia e questa frequentazione, tanto da affidargli la redazione de «L’Antipatico», sollecitarlo a inventarsi una rubrica «possibilmente odiosa a tutti» (lettera del 20 novembre 1957: «scopra quanti premi ha avuto Casorati dalla Liberazione ad oggi; quali sono stati i componenti dei cari governi succedutisi nello stesso periodo; le sciocchezze di Antonio Baldini»), invitarlo nel 1965 a curare cartelle di grafica quali Il soffio creatore, Dove mi hai condotto Egiziana, L’Insignificante, Chiama e Rispondi, e poi spingerlo a tutelare lo studio di via del Leoncino, i suoi stampatori, gli ospiti sui quali investiva. Primo fra tutti, anche per i risultati ottenuti, Mario Cresci. Perché, scrive, «Di ritornare a Roma ho tal spavento / che mi son ritirato in un convento».

Ricorre sempre a Tito quando Vallecchi, nel 1965, vuol mandare al macero oltre quattromila copie dell’«Antipatico» 1959 e 1960. Perché non salvarne almeno una cinquantina? Lo invita ai Bagni di Casciana e, già preso da «Inchiostri Associati», si sottrae alla riunione per la fondazione del «Calamaio Solitario», lo consiglia di avvalersi della preziosa collaborazione di Tanino Chiurazzi («largo di consigli e stretto di direttive»), lo informa della «subdola campagna denigratoria condotta dal Graphis Club» avventuratosi in una campagna di diffusione a tappeto della grafica.

L’impavido lettore Balestra si rende dunque prezioso e riceve proposte su proposte, non ultima, nel 1967, per il primo numero del «Rimbambito», quella di occuparsi dei Dannunziani, «citando degli autori che più si credono lontani dall’Immaginifico, i brani che ne rivelino, invece, la derivazione e la sudditanza». E poi, Presidente ormai dell’Accademia Nazionale di San Luca, Maccari commenta: «Alta corte che dorme, con giudizi stanchi,/ Non piglia né pesci né granchi./ Ma quando i Giudici son stanchi e monchi/ Non piglia né pesci né gronchi», senza lasciarsi sfuggire, dal Cinquale, di sottolineare che «Le deturpazioni del paesaggio proseguono imperturbabili».

In questo vorticoso ma lentissimo giro di lettere, incontri, telefonate, sollecitazioni, battute, scherzi e quant’altro poteva venire dal colto e intelligentissimo Maccari, il poeta romagnolo Balestra non ha preso proprio nulla e nulla restituito?

Tito, tra una lettera e una telefonata, una visita allo studio in via del Leoncino e gli incontri con gli stampatori, non dimentica di sfogliare e spesso leggere i cataloghi delle mostre di Maccari, a partire da quello della XXIV Biennale di Venezia del 1948 nel quale trova alcune indicazioni da seguire nel corso degli anni: «Le mie aspirazioni? Anzitutto l’umore e gli umori; poi le reminiscenze, la memoria, i sogni: il vero che rinasce attraverso l’invenzione! Il vero non soltanto visto, ma visto e preso, cioè fatto proprio, motivo di fantasia». Che riprende le meditazioni di Orco Bisorco, nel «Gazzettino ufficiale di Strapaese», pubblicato ne «Il Selvaggio» del 30 settembre 1927: «Noi siamo per la concretezza e la chiarezza della visione: per l’amore del fatto, del mondo qual è, e cioè di quel che si dice natura e che rappresenta la sintesi vitale tra anima e corpo, tra soggetto e oggetto, o come dir meglio si voglia. Realistici sintetici in una parola».

Sembrano parole scritte a commento delle poesie di Balestra. Perché il rapporto di Maccari con il suo tempo, proprio come Balestra (e Morandi?), ha un suo spazio nel quale si ritrova tutto il suo mondo. Un mondo teso a far cose nuove e attuali senza rompere le radici con un passato che è tutt’altro che inglorioso; di stare insomma, in chiave, come diceva appunto Maccari, ovvero non ripetendo le solite arie ma mantenendo il carattere di un’armonia: «La modernità non s’identifica col progresso del tempo, non si misura con l’orgoglio alla mano». E la mano così orgogliosa di Tito dove ha appreso a fare linoleumgrafie alle quali Enzo Della Chiesa dedica un libretto che fa dire a Maccari: Ecco, mi sono allevato una serpe in seno?

Proprio quella serpe che, nelle dediche riscontrate sulle opere in collezione, è ora grande amico, ora collezionista preferito, inquisitore feroce, amateur, moderatore, custode delle rarità, per finire, su un foglio intitolato La gloria di Maccari: «Al caro Balestra perché impari come si fa ad arrivare».

Ho fatto troppi viaggi con Tito e Maccari, in Toscana, Romagna e Lucania, di Balestra sono stato il primo editore come di Maccari, a parte i libri, ho pubblicato l’ultima edizione de «L’Antipatico», dove disegno e battuta, fulminanti, erano tutti di Maccari e prendevano in giro amici e nemici, per non avvertire che non c’è poesia di Balestra che non trovi il suo corrispettivo in un disegno di Maccari e non c’è disegno di Maccari conservato nella collezione di Longiano che non si porti dietro gli umori di Balestra.

Proviamo a selezionare i disegni e a legarli alla poesia, proprio come è accaduto con Vespignani, Mafai, Morandi, Rosai.

Il disegno, lingua madre di Maccari, è la più chiara traduzione in immagini della poesia di Balestra che, a sua volta, aiuta a capire lo spazio privato del disegno, un vero e proprio mondo ancora da scoprire nei suoi lati segreti che Balestra ha allargato con i suoi epigrammi ora ripubblicati da La Nave di Teseo: Quiproquo. Se hai una montagna di neve tienila all’ombra (prefazione di Alberto Bertoni, pp. 294, euro 20,00).

Perché Maccari era una autentica fucina di cultura, fervido di idee e proposte che Balestra coglieva al volo, avvertendo quanto la pittura e la grafica fossero la mediazione più autentica tra la tradizione di casa e le avanguardie europee, non solo figurative. Dove la tensione continua è verso la semplicità che «non è un punto di partenza ma un punto di arrivo, non è incoscienza ma coscienza distillatissima». Non avviene lo stesso nei versi di Balestra? Riprendendo Baudelaire, e in attesa di una mostra che evidenzi questo parallelismo, Maccari ha disegnato ciò che ha visto.

Proprio come Balestra. Leggiamo: «Pazienza, Roma è grande, una palude/ In cui si affoga. C’è chi ha barca e remi/ Chi nuota anche nel fango e c’è chi passa/ Sul corpo degli amici. Come te».