Visioni

«Titane», la danza del desiderio oltre le barriere del corpo

«Titane», la danza del desiderio oltre le barriere del corpoUna scena da «Titane» di Julie Ducournau

In sala Palma d’oro allo scorso festival di Cannes, il film di Julia Ducournau sorprende ogni «genere»

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 30 settembre 2021

Rivelatasi con il precedente Grave, uno degli horror più interessanti e originali degli ultimi anni, un’opera in grado di rilanciare «pericolosamente» il genere, Julia Ducournau ha dimostrato di sapere rielaborare in chiave molto personale una serie di ossessioni (di matrice soprattutto cronenberghiana) e di presentarle con una frontalità che deve sia al cinema italiano che all’exploitation statunitense. Ducournau s’inserisce nella rinascita del cinema horror al femminile, favorita in maniera determinante dalla riuscita del suo esordio che, soprattutto nel Regno Unito, ha offerto film di notevole interesse come Prevenge di Alice Lowe, Saint Maud di Rose Glass, The Power di Corinna Faith, Censor di Prano Bailey-Bond, A Banquet di Ruth Paxton e She Will di Charlotte Colbert. Rispetto all’ondata di film francesi di qualche tempo fa, titoli di alterno valore, preoccupati soprattutto di giocare con i luoghi comuni e gli omaggi, Ducournau usa il cosiddetto genere per «dire» delle cose (proprio come fa Lucile Hadzihalilovic in Earwig).

SE IN “GRAVE” (Raw-Una cruda verità) il nucleo problematico del film era la facciata di rispettabilità di una famiglia (cannibale) che si trova a gestire (male…) i turbamenti dell’età della figlia maggiore, riducendo così in frantumi la superficie di rispettabilità, in Titane il discorso sulla famiglia è radicalizzato. Perché in fondo, quel che emerge con forza dai primi due film di Ducournau, è proprio la centralità della famiglia, e il lavoro necessario per tenerla in piedi o, al contrario, la fatica necessaria per distruggerla.

Titane, rispetto a questa centralità politica e poetica, aumenta esponenzialmente la pressione. L’incipit coglie Alexia, la piccola protagonista, mentre prende a calci il sedile dell’automobile guidata dal padre (l’ottimo Bertrand Bonello) provocando così l’incidente che dà l’abbrivio al film. Per salvare la vita della piccola si rende necessario un intervento chirurgico per collocare una placca metallica nel cranio della bimba. Cresciuta, Alexia (Agathe Rousselle) si esibisce come go-go dancer in fiere automobilistiche (dove nottetempo si trattiene per fare sesso con le macchine; il sottotesto di Christine esplicitato con trasporto ballardiano).

La placca che vive nella sua testa, infatti, le permette di sviluppare una particolare empatia per le automobili e il metallo (il sex appeal dell’inorganico). Nella sola prima mezz’ora del film, Ducournau gira con una tale potenza millimetrica attenta a ogni dettaglio da suscitare l’entusiasmo più incondizionato. Tutte le prudenze produttive e le attenzioni a non dispiacere a nessuno vengono gettate alle ortiche, e senza remora alcuna. Dettagli entusiasmanti (spia di uno sguardo, di una strategia) come i capelli di Alexia impigliati nel piercing al capezzolo della sua amica (che qualche minuto dopo farà una fine orribile) diventano così messaggeri di un progetto estetico e politico. Come se la regista segnalasse che il film condurrà lo spettatore in territori a lui lontani e che il viaggio sarà, a seconda dei punti di vista, entusiasmante o tremendo.

DOPO ESSERSI abbandonata a una ferocissima notte di sangue, che ridicolizza tutte le velleità splatter e gore dei suoi colleghi maschi, Ducournau mette in piedi una personalissima rilettura di M Butterfly, il più segreto dei film di David Cronenberg. Per sfuggire alla polizia, Alexia si trasforma (in uno dei momenti fisicamente più insostenibili di tutto il film) nel figlio rapito da bambino del capo della sezione locale dei pompieri (Vincent Lindon, audacissimo). Immaginando come potrebbe essere diventato da adulto, la ragazza letteralmente manipola il suo corpo per approssimare la sua immagine a quella del (potenziale) bambino ormai cresciuto.

In questo giocare con le barriere e i limiti della carne e del corpo, inseguendo immagini imprendibili che a loro volta determinano il principio di realtà e di individuazione, Ducournau mette in scena una vertigine abissale di desiderio, seduzione e follia. E ciò che lo spettatore ancorato ai principi del realismo psicologico fatica ad accettare è la danza della menzogna (il cinema insomma…). Vincent sa che Alexia non è suo figlio, ma desidera che lo sia (con tutti i fantasmi dell’incesto che premono sull’inquadratura).

ED È IN QUESTA tensione che vive la riuscita del film, perché nega ogni ipotesi di realismo lasciando scoperti i nervi del film. Lo sguardo di Vincent, consapevole della menzogna (della messinscena organizzata da Alexia), è il varco etico e morale, per entrare nell’universo dei corpi di Titane. Bisogna uscire fuori di sé, per avere un’altra possibilità, anche se ciò che si ottiene alla fine non è esattamente quel che si sperava di trovare.

Titane è un’opera imprendibile da tutti i punti di vista. Un’opera che esce dagli schemi di tutti i discorsi attuali, dimostrando che, volendo, il cinema può ancora sorprendere.

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