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Tira e molla sulla data delle elezioni

Tira e molla sulla data delle elezioniUna vecchia urna elettorale, nelle nuove l'imboccatura sarà in plexiglass sterilizzabile

Regionali Cinque governatori su sei minacciano di far saltare l'election day del governo e fissare in anticipo la data del voto, al 6 settembre. L'esecutivo tiene sul 20 ma l'esame del decreto elezioni slitta. I promotori del referendum costituzionale spiegano a Conte perché l'accorpamento non si può fare, ma i 5 Stelle non sentono ragioni

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 29 maggio 2020

Senza coronavirus e decreto elezioni, dopodomani sarebbero scaduti sei consigli regionali – Puglia, Campania, Toscana, Marche, Liguria e Veneto – scadranno invece il 31 agosto. Il decreto, ieri in aula alla camera e subito rinviato alla prossima settimana, apre una finestra di 60 giorni (quindi settembre e ottobre) perché le regioni individuino la data effettiva: la competenza è la loro. Il governo ha in testa l’election day (anzi days perché si tornerà a votare anche di lunedì per diminuire la calca) il 20 settembre. Con amministrative (oltre mille comuni) e referendum. Ufficialmente si tratta di una mediazione tra la richiesta delle regioni di votare al più presto (avrebbero voluto farlo a luglio) e quella del centrodestra di andare a ottobre. In realtà le motivazioni della maggioranza sono altre, vedremo.

Ieri cinque presidenti di regione, tranne quello della Toscana che né si ricandida (come Emiliano, De Luca, Toti e Zaia) né ha un suo candidato (come Ceriscioli). hanno minacciato di fissare la data al 6 settembre se il governo insiste con il 20. Probabilmente si accontenteranno di evitare almeno il 27 settembre, sicuramente incasserebbero felici il 13. Ma il 13 non si può fare perché Forza Italia e Fratelli d’Italia non lo accettano, e non piace neanche alla Lega che però ha Zaia e un po’ Toti nel pancione e non può dirlo ad alta voce. Ai «governatori» interessa capitalizzare la visibilità che hanno acquisito durante la lotta alla pandemia, evitando le fatiche di una vera campagna elettorale. Cercano la riconferma sul campo.

Poi c’è la questione del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari, che si sarebbe dovuto tenere a marzo e che per l’emergenza si potrebbe tenere fino alla fine di novembre. Ma il governo vuole accorparlo a regionali e amministrative perché una ventina di milioni di elettori già chiamati al seggio fanno gola. Questo referendum non richiede quorum, ma la prospettiva di una vittoria nel vuoto di un astensionismo record, o addirittura messa a rischio dal fatto che alle urne sarebbero andati solo i contrari, terrorizzava i 5 Stelle. Che al contrario sono convinti che i favorevoli al Sì potrebbero contemporaneamente votare (per gratitudine?) le liste elettorali grilline. Il Pd si tiene stretto le poche regioni rimaste, anche se con candidati sgraditi al Nazareno, ed ecco fatto lo scambio.

Ieri i senatori promotori del referendum costituzionale hanno spiegato direttamente a Conte quale sia lo strafalcione di infilare la questione costituzionale nell’election day – per farlo il decreto cambia la legge del 2011 sulla data unica del voto che esclude proprio i referendum – e lo stesso ha detto una nota del Comitato del no. Ma le convenienze della maggioranza sono altre. Conte ha promesso che verificherà un eventuale accorpamento solo con i ballottaggi (Toscana e comuni sopra i 15mila). I 5 Stelle non lo accetteranno.

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