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Timpanaro, Leopardi poeta pensatore e altre voci per la Garzanti

Timpanaro, Leopardi poeta pensatore e altre voci per la GarzantiLuigi Rossini, veduta del Tempio di Antonino Pio al Foro Romano, 1822

Intellettuali del secolo Riunite in un volumetto, pubblicato a Macerata, le limpide schede redatte per l’«Enciclopedia europea dal filologo classico», militante socialista, che cambiò il modo di leggere il grande recanatese

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 19 novembre 2023

Le voci di un’enciclopedia, specialmente se è generalista e si rivolge al grande pubblico, devono avere comprensibilità e sintesi estreme, evitando l’abuso di un lessico specialistico e fungendo da strumento didattico. La regola del genere impone informazioni misurate e oggettive. A questi principî si uniformò l’impresa dell’Enciclopedia Europea Garzanti, uscita in dodici volumi dal 1976 al 1981. Estensori delle voci prescelte furono non di rado specialisti che si sforzarono di rispettare gli indirizzi stabiliti adottando un linguaggio non accademicamente atteggiato, né chiuso in una insistita settorialità. Raccogliere il lemmario riconducibile a un singolo autore può sfociare in una campionatura dotata di una certa organicità e assemblata non solo per affinità tematiche. Un’operazione di questo tipo traspare da un aureo libricino (edito da Giometti & Antonello, Macerata), compatto e serrato in brevi saggi o schede, da leggere con piacere oltre che da consultare alla bisogna: Sebastiano Timpanaro, Leopardi e altre voci, a cura di Luca Baranelli e Massimo Raffaeli (pp. 134, € 16,00).

Attribuire il volumetto a Timpanaro (1923-2000), come se fosse da lui costruito, è senza dubbio arbitrario; ma la provocazione, grazie ai rimandi interni e all’unitarietà stilistica, ha un timbro eccezionale: riporta a un confronto che giusto nel periodo in cui le voci furono compilate ebbe punte di sommo interesse e invita a ritrovare – assaporare – un dibattito destinato ad avere seguiti consistenti. Racchiude diciannove voci, diciassette delle quali dedicate a personalità di spicco più due panoramiche disciplinari su problemi connessi: «Filologia classica» e «Critica testuale». Scrive Raffaeli nella prefazione che Timpanaro attesta un incontro tra filologia e pensiero filosofico che delinea l’«assoluta originalità, e anzi unicità, della sua figura di intellettuale». Chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo nella sua Pisa nei primi anni sessanta e di seguirlo nelle focose battaglie politiche della sinistra socialista guidata da Lelio Basso, rammenta la passione di un continuo insegnamento. Fulcro ne era Leopardi: quando uscì la voce «Leopardi» aveva già pubblicato la ricerca sulla filologia del grande recanatese (1955) e, nel ’65, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano (Nistri-Lischi): pagine che scombinavano depositate periodizzazioni, contestavano pregiudizi anticlassistici di marca desanctisiana, l’ascendenza idealistica dell’ideologia prevalente nel Pci e dintorni. Rigore scientifico e militantismo stavano accanto nella sua polemica serbando la loro reciproca autonomia.

Vien voglia ora di centellinare il ritratto del materialista Giacomo per come emergeva da una prosa stringata e scarna, inelegante e pacata. Era la prima volta che in un repertorio enciclopedico Leopardi era definito «poeta, scrittore e pensatore italiano». La sua inquieta speculazione acquisiva pari dignità rispetto all’opera poetica nel clima di un secolo dimentico degli avanzamenti dell’Illuminismo. L’educazione che gli era ammannita era segnata da «una religiosità razionalistica e reazionaria insieme»: duplicità che avrebbe avuto echi non superficiali negli anni della maturità. Il riferimento era a Leibniz, contro il quale Leopardi opporrà non tanto una visione pessimistica, secondo l’impropria e abusata dizione, quanto un’apertura perlopiù ignorata, rifiutandosi di ammettere che «l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?» (1826). Passo decisivo dello Zibaldone, carte da analizzare nella loro diacronicità fino all’approdo a un mai smentito materialismo.

Oggi questa esaltazione può apparire troppo severa e unilaterale, ma immetteva in un’ermeneutica standardizzata un incontrovertibile e fondamentale elemento. Occorreva non debordare da finalità descrittive, ma prorompono spesso da Timpanaro giudizi di valore partecipi e sorprendenti, come quando classifica Alla sua donna (1823) «una delle più alte liriche leopardiane» e ne rinviene l’ispirazione in un «platonismo della fantasia», sottraendo il canto a un platonismo ideologico ed evocando le qualità «del più grande scrittore tra i filosofi di ogni tempo». Non fa velo «il carattere duramente antiegualitario» dello Stato da lui disegnato. E si mediti sulle righe elaborate per «Cicerone», criticato in quanto icona di un centrismo eterno ma lodato per «la sua prosa euritmica, sintatticamente complessa eppure articolata con cristallina chiarezza». Timpanaro sembra dichiarare qui la sua predilezione nemica dei garbugli baroccheggianti.

Sono fitti gli appunti a margine suggeriti dalla minuscola enciclopedia fatta di voci e testimonianze lontane nei secoli e contemporaneamente poste in una sequenza necessaria. Da Pietro Giordani, frenetico organizzatore di cultura a Niccolò Tommaseo, qui immune dagli strali che si attenderebbero; da Benedetto Croce «fermo e dignitoso» nel suo distaccato antifascismo al tedesco Karl Lachmann, «modello astratto di riferimento ineludibile»; da Ulrich von Wilamovitz-Moellendorff, – di cui, nonostante i limiti politici, rimane fuori discussione «la eccezionale intelligenza di interprete» – a Concetto Marchesi, «autentico scrittore» attratto dalle psicologie dei singoli protagonisti e, infine, a Giorgio Pasquali, indimenticato e stravagante maestro, teso a scrutare la lingua quale «strumento per legare i problemi più disparati alla realtà concreta della vita quotidiana», dunque filologo e storico insieme. Sebastiano ne fu allievo fedele, ne seguì i metodi fino all’ultimo.

Nei seminari tenuti ogni anno alla Scuola Normale dal filologo tedesco Eduard Fraenkel era consueta la partecipazione di Timpanaro, che però ascoltava in silenzio e non apriva bocca se non per laconici pareri che avevano l’autorevolezza di una sentenza conclusiva. Sebastiano aveva difficoltà a parlare in pubblico. Era costretto a mettere su carta i suoi punti di vista. Scrivere significava per lui «svolgere un ragionamento – ha osservato Romano Luperini – che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze, senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali: seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni». Finito il seminario ufficiale, prendeva forma un altro seminario. Fioccavano battute e ripensamenti. Da quella specie di marxismo-leopardismo che Timpanaro si attribuì quasi per scherzo scaturivano a raffica aspre verità in una platonica «fusione di ironia e fantasia» (Luigi Blasucci)

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