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Timidezza

Leggendo un bell’articolo di Ilaria Bussoni su Alfabeta2 – Il cinema preso da dietro – mi sono imbattuto in un’informazione affascinante. Ecco il passaggio: «Alcuni alberi delle foreste equatoriali limitano […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 28 aprile 2015

Leggendo un bell’articolo di Ilaria Bussoni su Alfabeta2 – Il cinema preso da dietro – mi sono imbattuto in un’informazione affascinante.

Ecco il passaggio: «Alcuni alberi delle foreste equatoriali limitano la crescita delle proprie fronde per consentire che tra un albero e un altro continui a passare la luce. Visti dall’alto – ce li ha mostrati il giardiniere Gilles Clément – i rami si arrestano su una soglia che è quella dello spazio comune tra sé e il vicino. Uno spazio che unisce e separa e che consente a tutti di vivere. È chiamata relazione di timidezza. Accade per natura. Non è per natura che tra gli umani si dà lo spazio della loro relazione…».

La parola timidezza , che deriva dal latino timere, aver paura, è nel migliore dei casi una specie di difetto a cui si guarda con una certa simpatica indulgenza nelle persone più giovani. Ma che può essere additata anche come una grave incapacità di stare nel mondo, al limite della patologia.

In questo comportamento di sagge piante che vivono in foreste lontane la timidezza viene invece elevata a virtù indispensabile per avere relazioni vitali con gli altri. È la capacità di costruire la distanza necessaria a realizzare un rapporto, una comunicazione, capace di riconoscere l’altro e di favorire un ambiente, una comunità fondata sulle relazioni tra individui e individue. Uno spazio, direi, imprescindibile anche per affrontare gli inevitabili e necessari conflitti riducendo al massimo la possibilità che degenerino in pura distruzione.

Ho pensato alle troppe liti furiose, grondanti rabbia e insulti, in cui si inciampa su facebook. La comunicazione in rete ha proprio questo enorme difetto: l’azzeramento di ogni distanza fisica e temporale, l’assenza dei corpi e dello spazio indispensabile a percepirli – a percepirsi. Ci si aggrappa ottusamente alle parole, alla lettera, e si precipita nel livore e nel risentimento. Che è probabilmente l’incapacità di confliggere consapevolmente con qualcosa di oscuro che è dentro di noi piuttosto che appartenere all’altro con cui crediamo di discutere (e che magari è anche uno sconosciuto). Succede nei social ma mi sembra la tipologia della degenerazione di ogni conflitto in violenza.

Dunque noi umani dovremmo imparare a costruirli questa distanza e questi spazi che potremmo definire di timidezza. Anche utilizzando diversamente le tecnologie di cui ci siamo dotati. Non per caso l’articolo da cui sono partito parla di un documentario (Wenn aus dem Himmel, Quando dal cielo di Fabrizio Ferraro) sul modo in cui suonano due musicisti geniali – Paolo Fresu e Daniele Bonaventura – assistiti da un discografico, Manfred Eicher, e dalle tecnologie offerte da una sala di registrazione. (E qui mi viene in mente l’ultimo Glenn Gould e le sue clausure in sala di registrazione per scolpire ogni singola nota del suo Bach nella distanza necessaria con quella successiva…).

Un concerto jazz è forse la forma di espressione, e di relazione, che esprime la massima libertà – fino all’anarchia dell’improvvisazione libera dall’armonia – ma che funziona solo grazie a discipline rigorose tra chi dà forma e vita alla musica. Nella cultura che si ha in testa, nei sentimenti, nella capacità di usare tutte le capacità e le risorse del corpo.

Direi, per concludere, che per prepararsi al meglio all’amicizia e alla lotta può essere utile ascoltare (e magari anche fare) molta buona musica e leggere le fondamentali opere di Gilles Clément. A quanto pare anche dalle piante e dalle loro scelte di vita abbiamo molto da imparare.

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